Finito Carnevale é tempo di Quaresima!

Baccalà in umido… e siamo già in Quaresima, quel tempo che per i cristiani è un periodo di preparazione ai misteri pasquali.

Quest’anno le settimane quaresimali (5) sono vicinissime al Natale, che sembra appena passato, poiché la Pasqua è molto “alta”, come si dice, e cadrà il 31 di marzo.

Dicevamo della Quaresima, tempo di conversione e purificazione per antonomasia, celebrato fin dall’antichità.

Vorremmo porre l’accento su “purificazione” che comprende non solo la purificazione dell’anima, ma anche quella del corpo.

Nella nostra bella Italia, infatti, terra di ghiottoni ed edonisti sono nate le migliori e più succulente ricette “di magro” che conciliano proprio questa necessità di “purificazione” del corpo con il precetto dell’astensione da cibi grassi e carni che la tradizione quaresimale richiede.

Scavando nei ricordi della mia famiglia e facendo qualche ricerca vorrei proporre oggi una ricetta “quaresimale” che utilizza un ingrediente principe della tradizione dei piatti di magro: il baccalà. Il baccalà per i pochi che non lo sanno, è merluzzo conservato sotto sale e si differenzia dallo stoccafisso, che è comunque merluzzo, perché quest’ultimo è essiccato.

Comunque per utilizzare sia l’uno sia l’altro è necessario “spugnarli” (come diceva la mia prozia salernitana) cioè farli “riprendere” lasciandoli sotto l’acqua fredda corrente almeno per un giorno prima della cottura.

1 chilo di baccalà “spugnato”,

farina,

mezzo chilo di pomodori pelati,

un cucchiaio di capperi,

aglio,

50 g di olive nere snocciolate

un mazzetto di prezzemolo,

olio d’oliva,

peperoncino,

sale.

Infarinare il baccalà e farlo dorare in abbondante olio d’oliva caldo (questa volta olio di oliva anche per la frittura perché il baccalà ha un sapore molto forte che ben si adatta al sapore forte della frittura con olio di oliva).

Preparare una salsetta con aglio soffritto nell’olio, versare il pomodoro sminuzzato e far cuocere per una decina di minuti.

Aggiungere poi il baccalà fritto, le olive, i capperi e il peperoncino.

Lasciare insaporire, cuocendo per circa 30 minuti a fuoco lento e poi cospargere con prezzemolo tritato.

La variante per avere un piatto completo è quella di aggiungere nel sughetto, dieci minuti prima del baccalà, mezzo chilo di patate tagliate a dadini.

Piatto antico, succulento e di magro.

E’ possibile giudicare?

E’ possibile giudicare?
A volte non è facile dare un giudizio su tutto ciò che accade attorno a noi. Così, mentre ancora siamo sconcertati e perplessi dalle dimissioni di Papa Benedetto XVI, mi sorprendono i giudizi sicuri e le affermazioni di tanti che si dicono a favore o contrari a questa decisione del Pontefice.

Come ci immaginiamo la vita dei  religiosi?  Quali sono le sfide e quanta tenacia occorre per mantenere una vita autentica nella fede?  C’è una donna che ce lo racconta in un libro, da poco uscito, intitolato: Mentre vi guardo.

E’  Madre Ignazia Angelini, badessa del Monastero di Viboldone, Milano.

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Nel libro troverete  la sua esperienza di vita nel monastero (dove è entrata quando aveva 19 anni, nel 1964)  ma anche ciò che i suoi occhi hanno visto e compreso del mondo esterno. La sua è stata una vita dedicata alla meditazione e alla preghiera ma anche alla relazione con gli altri, siano essi le monache del convento o le persone fuori nel mondo.

Il libro è una riflessione su queste relazioni. Tutti gli aspetti della vita sono visti da un prospettiva nuova.  Un esempio è il concetto di “realizzazione di se’” inteso come un percorso legato solo a parametri economici, mentre invece dovrebbe essere visto come “la capacità di una persona di elaborare un gusto della vita a costituire la sua realizzazione.”

Oppure il tema delle passioni e della necessità di andare oltre alle reazioni suscitate in preda all’ emozione: reazioni che  “assolutizzano l’immediato” e non permettono di istituire a priori il contatto con l’altro.Una riflessione tanto più vera se si pensa alla nuova mania generata da Facebook, in cui tutto si è trasformato in un’affermazione ripetuta di mi piace non mi piace. Tanto che il verbo piacere si è passato, come dice Jonathan Franzen nel suo nuovo libro Più lontano ancora, “da essere una disposizione d’animo ad un’azione compiuta con il mouse, da un sentimento a un’affermazione di scelta del consumatore”.

Un libro da leggere piano e da meditare dove vi stupirete come i temi scelti da una suora di clausura siano quanto mai attuali e calati nel nostro mondo.

Chi era Celestino V?

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Alla luce dei recenti avvenimenti mi sembra giusto spendere alcune parole su una figura storica che è stata strappata con prepotenza all’oblio e che è improvvisamente divenuta attualissima anche perché fa parte del bagaglio culturale di noi italiani, che ne abbiamo appreso la vicenda sudando sulle terzine dantesche della Divina Commedia. Sto parlando di Celestino V, al secolo Pietro del Morrone, che Dante incontra all’inferno riconoscendo “l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. E questo giudizio tranciante del sommo poeta accompagna da sempre il personaggio letterario di Celestino V, ma si discosta da quello storico. Ridurre infatti l’intera vicenda di quest’uomo al severo giudizio dantesco sarebbe ingiusto.
Eremita, contemplativo, di enorme e profonda cultura Pietro istituì, dopo anni passati nella solitudine del suo eremo sulla Maiella, un ordine monastico, che seguiva la regola benedettina, che venne riconosciuto da papa Gregorio X e dotato di sostanziosi beni.
Visse Pietro in un’epoca di profondi stravolgimenti politici, in cui si scontravano due concezioni diverse del papato: una che vedeva la Chiesa come espressione del potere, l’altra che la considerava pura diffusione dell’amore divino. Due modi di intendere anche la figura del pontefice, dicotomia che inevitabilmente portò un uomo di amore e fede come Pietro a lasciare il soglio pontificio con un profondissimo gesto di umiltà. Era stata la sua fama di uomo “angelico” che aveva indotto i cardinali riuniti in conclave da 33 mesi (!) a eleggerlo papa nel 1294. Durante il breve pontificato, Pietro, divenuto Celestino V, si rese conto di dover guidare un cambiamento sostanziale nella struttura stessa della Chiesa medievale, che viveva anni di turbamento in attesa che si compissero le profezie trinitarie di Gioacchino da Fiore, il quale aveva parlato della fine di una Chiesa Cattolica dominata dalle istituzioni e l’inizio di un periodo in cui sarebbero prevalsi l’amore e la spiritualità, al punto che gerarchie, riti e dogmi della antica Chiesa sarebbero diventati inutili poiché lo stesso Spirito Santo l’avrebbe guidata su un cammino di pace e riconciliazione. Promuovere dunque un sostanziale cambiamento, questo era compito che Celestino, uomo di contemplazione e non di azione, calato in un ambiente apertamente ostile, quale la curia romana, non si sentì degno di portare a termine.
Come dargli torto? Alla luce di ciò, credo che finalmente Celestino possa essere assolto dall’accusa di “viltade” mossagli da Dante. Uomo semplice aveva sperato che il suo successore potesse essere più degno del compito di traghettare la Chiesa fuori dai pericoli della sua epoca. Oggi sappiamo che la storia non è stata benevola, il successore di Celestino fu infatti Bonifacio VII, non esattamente un campione di probità.

martedì grasso

Oggi siamo in ritardo ma ancora in clima di carnevale, prima delle ceneri di domani, vi vogliamo segnalare la sfilata dei  carri  più belli. Realizzata nella città di Zundert nei Pesi Bassi, è una sfilata originale fatta di forme  monumentali e coloratissime costruite con i fiori. Questa tradizione dei carri fioriti è nata nel 1936 e oggi è molto seguita da tutto il paese.

Date un’occhiata a queste immagini  e se volete saperne di più andate sul loro sito http://www.corsozundert.nl

Sfilata dei carri, Zundert
Sfilata dei carri, Zundert
sfilata dei carri, Zundert
Sfilata dei carri, Zundert
Sfilata dei carri, Zundert
Sfilata dei carri, Zundert

Chiacchiere del Lunedì

Prova mafaldeDomani sera prende il via… il Festival di San Remo. Perché parlarne ancora, ritornare sugli usurati commenti che ogni anno dal 1951 ci seguono durante tutto il mese di febbraio? La risposta è ardua, ma crediamo che possa essere rintracciata nel fatto che il festival è un la vetrina dell’Italia, di come era e di come è.

Ogni anno è accompagnato dalle polemiche, dagli scandali, dal gossip e sembra quasi che il bel canto italiano, per cui era nata la manifestazione, sia di anno in anno sempre meno importante!

Artisti famosi, meteore, sedicenti cantanti o cantautori per 3 minuti calcano il palco dell’Ariston e, comunque vadano le cose, entrano nella leggenda. Anzi meglio se accolti con freddezza o con aperta ostilità dal pubblico perché così se ne potrà parlare per giorni, per settimane…

Trovo che il festival sia lo specchio dell’Italia e quest’anno, cadendo in periodo pre elettorale, annuncia scintille proprio per il suo carattere mediatico di collettore di ogni tipo di pubblico.

Le tue riflessioni le condivido e, pensandoci un po’, credo che il festival sia vecchio come il cucco. I miei genitori non lo hanno mai guardato, da ragazza lo snobbavo eppure ricordo che il look un po’ dark e punk della prima Anna Oxa mi colpì.  Poi, vediamo, ricordo che negli anni successivi, quando si rafforzò la Lega con i suoi attacchi all’idea di unità nazionale, incontravo persone lontanissime dal festival e dalla televisione, che affermavano quanto spettacoli come il festival della canzone italiana fossero eventi da valorizzare e mantenere per salvaguardare l’idea di nazione.

Ancor più della gara canora è interessante il format che segue il festival in cui si raduna il meglio e il peggio di ciò che la televisione può offrire, in cui spesso nell’arena si scontrano, dietro l’alibi della musica, interi universi di pensiero.

Vabbé, non confesserò mai da quanti anni ne sento parlare, ma posso affermare che le cose non sono mai cambiate!

Devo confessare però che mai sono riuscita a vedere un festival dall’inizio alla fine per un’intera settimana

Anche io faccio come te e così un po’ lo vedo un po’ no. Questa volta, però, mi rallegra sapere che ci saranno come presentatori Fazio e Litizzetto a cui va tutta la mia simpatia. 

La tela del ragno

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Ieri sul tram a Ginevra due bambini di due o al massimo tre anni, un bambino e una bambina di due mamme diverse,  stavano seduti vicini, tutti imbacuccati per il freddo con cappello e giubbotto, ognuno sul proprio carrozzino. La bambina più di una volta si è girata per studiare il compagno di viaggio alla sua altezza di seduta, lui invece era altrove con la testa, impassibile, teneva il ciuccio in bocca senza mostrare alcun interesse. Dopo poco lei, sentendosi al sicuro, si è occupata di altro e ha tirato fuori da dentro la manica un grande cioccolatino a forma di ombrellino; non lo ha aperto, ha cominciato a dondolarlo tra le mani come un trofeo.  Arrivata alla fermata, la mamma ha fatto scendere il passeggino con la bimba e se ne è andata, ma guardo bene, e la bambina ancora una volta si gira per cercare lo sguardo del bambino. In quel breve tragitto la bambina ha pensato e fatto un sacco di cose, legata nel suo carretto come un fagotto; tutto il suo corpo e la sua testa erano in un movimento silenzioso.

Ho pensato c’è una vita parallela dei bambini, loro fanno esperienze continue portano avanti le loro scoperte e molto di quello che fanno resta celato agli occhi degli adulti.  Lavoro come assistente di sostegno, per qualche ora, in una scuola, e oggi a un bambino di cinque anni, che non avevo mai visto, dopo un mio apprezzamento per il suo caldo cappello di lana, si è acceso l’interesse. Con grande foga ed entusiasmo si è messo a raccontarmi quanto fosse orgoglioso del suo copricapo: il cappello lo aveva fatto la mamma, di lana pesante uno per lui  uno per suo fratello, peccato però mentre mi raccontava questo la maestra lo  ha chiamato per rientrare in classe. Lui non si è ribellato mi ha detto tutto in un fiato ed è corso via. Ho pensato: che fatica, i bambini sono come ragnetti che filano una tela costruita giorno giorno, imparano da ciò che vedono e da ciò che sperimentano. Tutte le loro intuizioni, relazioni e sensazioni sono la trama di un opera bellissima, che noi adulti simili ad aspirapolveri provvediamo ogni volta a pulire e sterilizzare, convinti di far sempre la cosa giusta.

Un morso tira l’altro!

piadinaStiamo per essere letteralmente ricoperti dalla neve… Fuori è grigio e triste, il freddo ci morde senza pietà… questo è il tempo perfetto per cucinare e per mangiare senza troppi sensi di colpa, magari accoccolati sul divano davanti al caminetto in compagnia di un bel giallo, ascoltando musica. Con questo programma persino l’inverno diventa tollerabile!

La soluzione per cucinare qualcosa che non sbrodoli ce l’ho… no non è la pizza (ho detto che non deve sbrodolare!), sto pensando ad una signora della cucina regionale: la piadina!

Una signora molto antica se è vero che, come la pizza, a suo modo la piadina è figlia della “mensa” romana, già citata da Virgilio nell’Eneide, con la quale si designava un disco di pane piatto che si metteva in tavola all’inizio del pasto e sul quale venivano servite le carni e le altre pietanze. Questa focaccia schiacciata, di solito azzima, fu consumata per tutto il Medioevo e il Rinascimento dalle classi più povere della popolazione italiana.

Ma il secolo d’oro della Piadina è il XX secolo, per l’esattezza gli anni 50’ che vedono insieme al boom economico anche il diffondersi dei bagni di mare sulla costiera Romagnola. Qui, casa della piadina, essa ora come allora viene ancora confezionata nei chioschetti sui bordi delle maggiori strade, cotta sul momento e riempita con i fantastici salumi della tradizione, ma anche con formaggio e verdure.

Il nonno Elviro, romagnolo doc (il cui nome rendeva omaggio alla tradizione della sua terra di attribuire ai bambini nomi inusuali quali Menotti, Oberdan, Valmore o Iorio), sosteneva che ogni azdora, cioè colei che accudiva la casa e preparava i cibi nell’antica famiglia contadina, aveva una ricetta segreta per impastare la piadina ed è per questa ragione che diamo qui la ricetta in linea generale, ma essa dovrà cambiare a seconda di parecchie variabili che vanno dallo spessore della farina, al calore delle mani di chi impasta, alla durezza dell’acqua, all’utilizzo dello strutto o dell’olio…

Per cuocere la Piada sarebbe necessario il Testo una sorta di pentola in coccio che diventava incandescente e rendeva la pasta dorata. Credo di aver visto questo magico arnese solo una volta in vita mia… dunque ingegnatevi e lasciate spazio alla fantasia per cuocere la piadina (pentolino da crèpes, fornello elettrico o quant’altro). L’importante sarà bucherellare con la forchetta le bolle che si formeranno sulla superficie dorata in modo che la pasta risulti tutta uniformemente cotta.

1 chilo di farina (preferite il tipo “0” al fior di farina “00”)

100 gr. di strutto (può essere sostituito dall’olio di oliva, ma il purista inorridirebbe)

un pizzico di sale

acqua o latte quanto basta (con il latte diventa più morbida)

Per rendere la piadina più morbida si può aggiungere un po? Di lievito (25 g per chilo o un paio di cucchiaini di bicarbonato)piadina 2

Dopo aver messo tutti gli ingredienti insieme incominciate a impastare finché non avrete un risultato bello elastico. Dividete la pasta in pagnottelle e lasciate riposare il tutto coperto con un panno per almeno mezz’ora.

Stendete le pagnottelle con lo spessore che preferite e cuocete rapidamente.

Ricordate che la classica piadina è quella che si accompagna al prosciutto crudo, ma le varianti sono infinite… sbizzarritevi!

Scatti d’arte

afficheLa guerra tra pittura e fotografia si può dire conclusa? Si direbbe ormai di sì: chi si interessa d’arte oggi non può fare a meno di interessarsi di fotografia.  Il mezzo fotografico è un modo, un mezzo per fare arte perché, dopo le esperienze di artisti come Duchamp e Picasso (readymade e i collage),  tutto può concorrere all’idea generale di arte.

Ci sono fotografi che amano creare delle finzioni sceniche come se preparassero un set  da fotografare. La finzione non viene celata, ma il visitatore la riconosce subito guardando la foto. Per farvi un esempio, a Nyon in questi giorni, presso la galleria  Focale, si tiene la mostra di una fotografa italiana Simona Bonanno, che lavora proprio con questo stile. La mostra, intitolata Chains of silence (catena del silenzio), presenta una serie di fotografie che riproducono storie tragiche vissute da donne di tutto il mondo. Niente di più crudo e reale, raccontato attraverso delle bambole.

Simona Bonanno,Begm S.-Pakistanaise
Simona Bonanno,Begm S.-Pakistanaise

Le foto sono raccapriccianti, ma non si riferiscono ad un corpo umano bensì ad una serie di Barbie. Ogni bambola è stata scelta, preparata per lo scatto fotografico come su un set o su una scena teatrale. In fondo anche questa fase preparatoria non può essere scissa dall’opera: è come se l’artista avesse creato una piccola installazione. L’effetto finale è realistico, ma si tratta pur sempre di un’altra realtà. Ognuna di essa è avvolta in un tessuto, coperta dalla materia, bruciata. Nelle foto si sente il contrasto tra un gioco innocente, come la bambola, e la violenza dell’immagine. Si passa dalle donne auto immolate delle province afghane a quelle violentate e massacrate in Algeria, sepolte vive in Turchia. Un omaggio dunque a quante muoiono nel nome della tradizione più retriva, dell’odio  e dell’ignoranza.

Simona Bonanno, Auto-immolation de femmes afganes
Simona Bonanno, Auto-immolation de femmes afganes

La serie di questi lavori ha vinto, nel 2010, il Prix Julia Margaret Cameron  e sono già state esposte in Argentina, Israele e Turchia.

Pellegrini… non per caso!

Itinerarium Egeriae ad loca sanctaHo viaggiato un intero giorno per ritornare a casa. Sono passata da aeroporti affollati, ho aspettato pazientemente il decollo, seduta diligentemente al mio posto, in un aereo che ha impiegato più di un’ora per avere l’ok e volare via, e mi è sembrato un ritorno faticoso e difficile.
Per caso durante la lunga attesa ho letto, nell’immancabile e spiegazzato giornaletto contenuto nella tasca del sedile anteriore, un interessante e strano, per collocazione, articolo e che ha risvegliato i miei ricordi storici e mi dà oggi l’occasione di parlare di una figura decisamente singolare.
Vorrei, infatti, raccontare di una donna, molto lontana cronologicamente, ma straordinariamente vicina quanto a spirito e iniziativa.
Una donna di cui non si conosce con esattezza identità, provenienza e stato, ma che ha compiuto un’impresa titanica. Il nome con il quale è conosciuta è Egeria, ed è nota per aver compiuto un lunghissimo pellegrinaggio fra i luoghi del giudaismo e del cristianesimo, di cui fu relatrice attenta, curiosa ed entusiasta tradendo un grandissimo interesse storico, linguistico, liturgico, religioso, antiquario e biblico, quanto mai singolare in un’epoca così remota, soprattutto per una donna.
Gerusalemme carta da Madaba
Vorrei parlarvi, brevemente, di una viaggiatrice ante litteram la cui storia è giunta a noi in modo fortunoso.
Il manoscritto contenente le peregrinazioni di questa donna straordinaria infatti fu ritrovato ad Arezzo nel 1887, proveniente dalla biblioteca del Monastero di Montecassino, fortemente mutilo, fra le altre curiosità lo scritto servì a Pietro Diacono (XII secolo) come fonte per la realizzazione di un trattato sui luoghi santi.il viaggio di Egeria
Si tratta di un’opera letteraria in lingua latina “volgare”, cioè priva di quelle espressioni classiche che si addicevano ad un buon documento. Tuttavia proprio questo latino volgare ricco di espressioni popolari ci dà la misura della curiosità e della capacità di osservazione dell’autrice. La figura di Egeria ha appassionato generazioni di studiosi. Nulla si conosce di lei con esattezza. Forse compì il suo viaggio intorno al 381, forse fu una monaca (lo si evince dal rispetto che suscitava fra vescovi e prelati che incontrò) ma potrebbe essere stata una ricca e influente signora, forse di stirpe regale, forse proveniente dalla Spagna, il suo carattere, la sua forza e la sua determinazione si intuiscono mano mano si procede nella lettura dei suoi scritti, delle sue descrizioni di luoghi, persone e azioni. Lucida, colta, curiosa Egeria intraprese un viaggio attraverso il Medio Oriente che la portò consapevolmente sulle orme non solo degli Apostoli e dei primi martiri, ma dello stesso Gesù Cristo. In nave fino a Costantinopoli e poi a piedi o a cavallo o su battelli, attraverso la Palestina, l’Egitto, la Fenicia, la Mesopotamia, l’Arabia.
L’ Itinerarium Egeriae ad Loca Sancta durò circa quattro anni, durante i quali la nostra misteriosa viaggiatrice toccò tutte le tappe più importanti dei luoghi citati nella Bibbia e nei Vangeli.
Al di là dell’itinerario scelto da questa donna coraggiosa, spinta da una profonda fede che la portò ad affrontare indicibili fatiche soprattutto per una donna, il tratto saliente della sua personalità è quello che caratterizza da sempre i viaggiatori che compiono con profonda curiosità e senza alcun pregiudizio ogni passo del loro lungo cammino.
Perché parlarne oggi? perché possiamo trovare nei suoi resoconti uno spirito moderno e una curiosità culturale che ancora oggi possono fare la differenza tra i viaggiatori e i turisti!

Chiacchiere del lunedi

Prova mafaldeEd eccoci a febbraio mese corto ma pieno di momenti  di cui non mancheremo di sentir  parlare: tempo di carnevale, di elezioni, del festival di Sanremo  e di  San Valentino.

san-valentinoCon qualche giorno in anticipo, vorrei  dedicarmi all’amore e quindi a San Valentino.  Non che questa festa dica molto alle persone della mia età, la generazione degli ultraquarantenni.  San Valentino rimane un’imposizione senza storia, che non riesce veramente a mettere radici: per me rimane la sorella di Halloween  e alla fine si riduce in una proposta commerciale. E che proposta:  avete mai visto tutti quei cuori rossi di peluche, quegli adesivi, quelle rose e quei profumi, quei pizzi e merletti con frasi e ammiccamenti? È una fiera del cattivo gusto, altro che  un momento dedicato alle coppie.

Esatto! Come la sorella cattiva (Halloween), la festa di San Valentino non ci appartiene! Il colmo del kitch quest’anno è stato stato raggiunto da una nota marca di intimo che ha messo in vetrina un cuore in pizzo nero il cui centro palpita come un cuore vero… l’effetto, vi assicuro, è fra il ridicolo e l’inquietante

A me resta comunque un debole per le storie d’amore e questa, di cui vi parlo oggi, l’ho trovata su La Stampa, in questi giorni. La vicenda  era stata riportata antecedentemente dal Times e tratta di una storia che si è svolta nel Galles del XIX secolo. Siamo dentro un castello, il castello di Penryn, nei pressi di Bangor. Ci viveva un nobilotto, ricco industriale e deputato del partito conservatore. Racconta una leggenda locale che, quando vene a sapere dell’amore sbocciato fra la figlia – Alice –  e un giardiniere, andò su tutte le furie e rinchiuse la fanciulla nella torre del castello. Ebbene, dentro quella che doveva essere la camera di Lady Alice resta, dalla sua epoca, un’iscrizione che nessuno aveva mai decifrato, ritenendola una specie di rompicapo in latino. Dico aveva perché in questi giorni è passata dal castello una signora italiana, funzionaria del National Trust, che sa di lirica. Appena vista la frase ha esclamato: ma è la Traviata! Niente latino, infatti: si tratta di una frase, in italiano, presa dalla celebre opera di Verdi.  “Essere amata amando”, aveva inciso, probabilmente, la sfortunata Alice usando le parole della povera Violetta innamorata di Alfredo.

Si, belle le storie di amore, quell’amore eterno, sincero, granitico che tutto affronta. Quelle che hanno un po’ sapore antico che é consolatorio leggere e rileggere a dispetto di tutte le sfumature di grigio contemporanee.   

Niente di più facile da credere: ancora una volta l’arte con il suo potere universale ha superato i confini geografici e linguistici per dare voce a un sentimento.

Propongo di cambiare la festa di San Valentino: non più festa degli innamorati, ma festa per tutti coloro che amano ascoltare delle belle storie d’amore.