Scaldate i motori

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Scena dal film documentario The Price of Everything

Mentre galleristi, collezionisti, consulenti e artisti si scaldano in vista  dell’apertura di due fiere dell’arte contemporanea che si terranno quasi negli stessi giorni a Bologna  e a Ginevra, ha inizio febbraio, una cara amica mi ha fatto notare che quest’anno al Sundance Film Festival, dedicato al cinema indipendente americano, è stato presentato un documentario sul mondo dell’arte contemporaneo dal titolo The Price of Everything, regia di Nathan Kahn . Il  documentario è un’indagine  sul sistema che ruota attorno  all’arte e cerca di comprendere le implicazioni del legame  tra successo, denaro e il desiderio di possesso. Il titolo è ripreso da una frase di Oscar Wilde nella commedia Il ventaglio di Lady Windermere , pronunciata da Lord Darlinghton: egli afferma che “ una persona cinica è colui che conosce il prezzo di ogni cosa ma il valore di niente”.

Il regista è partito dagli artisti – tra cui Jeff Koons, Gerhard Richter – e dal confronto che devono sostenere con il mercato dell’arte in una società come la nostra, dove tutto si compra e tutto si vende. I temi sono giusti per questi tempi e il documentario sembra molto promettente e pungente. 

Biennale di Venezia

Sono praticamente cresciuta alle Biennali di Venezia. Sin da quando sono piccola, ogni due anni si programma quando e per quanti giorni si riesce a stare a Venezia. 

Il prossimo sabato si inaugura la 57esima edizione dal titolo “Viva arte viva”. VivaArteViva

Mi vengono in mente i bei momenti, quelli un po’ più  faticosi, i passaparola, le discussioni. I ricordi si sovrappongono; mi sovvengo in particolare delle celebri pecore di Menashe Kadishman del 1978, dell’edizione del 1980 con le continue visite, assieme a mio padre, per vedere e rivedere l’opera di Magdalena Abakanowicz, nel padiglione polacco. Nel 1990 ho visto per la prima volta l’opera di Anish Kapoor e mi sono scandalizzata davanti alla scultura policroma di Jeff Koons abbracciato a Cicciolina. 

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Anish Kapoor, Void Field,1990

Non posso dimenticarmi l’immersione nel padiglione giapponese dentro l’opera di Yayoi Kusama del 1993, oppure l’orrore e l’odore acre delle ossa, lasciate dalla performance Balkan Baroque, di Marina Abramowic, del 1997.

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Marina bramovic, Balkan Baroque,1997

Mi sono tanto divertita con le sedie tamburo di Chen Zhen, nel 1999  e  mi sono lasciata condurre nello spazio dagli specchi e dai colori dell’installazione  di Olafur Eliasson, nel padiglione danese, nel 2003. Sono stata incantata e commossa, come vedessi trascorrere la mia vita, dalle opere di William Kentridge, nel 2005.

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Olafur Eliasson,2003

Alla Biennale poi ricordo le prese di posizione politiche da parte degli artisti, come quando nel 2003 Santiago Serra non mi fece entrare nel padiglione spagnolo perché non avevo il passaporto spagnolo. Oppure mi ricordo l’artista Khaled Corani, palestinese, che senza un padiglione per il suo stato aveva collocato nei giardini grandi passaporti palestinesi.

Bisogna andarci, a Venezia, e vedere cosa ci verrà proposto perché è vero l’arte è sempre viva e un po’ come ci aveva suggerito Carsten Höller nel 2015,  presentandoci la sua opera ai Giardini, la biennale è come un giro di giostra e non si può mancare.

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Carsten Höller, RB Ride, 2015

Chiacchiere del lunedì

Delphine Boël, The Golden Rule blabla
Delphine Boël, The Golden Rule blabla

Se Dio vuole, i diritti umani sono popolari con tanta gente. La moglie, invidiatissima, di George Clooney è una avvocatessa specializzata proprio in questo campo. Una persona così interessante da essersi accaparrata lo scapolo d’oro del nostro tempo. Le star del cinema, poi, si fanno in quattro per proteggere i diritti e le vite di comunità marginalizzate ai quattro angoli del pianeta. Compreso il bel George, col suo impegno in Sudan.

Organizzazioni come Human Rights Watch non sono mai state così autorevoli col pubblico. Proprio quest’ultima ha celebrato con la sua cena annuale di autofinanziamento, pochi giorni fa a Londra, la meravigliosa figura di un sacerdote cristiano, padre Kinvi, che ha salvato moltissimi musulmani dalla vendetta delle milizie cristiane in Repubblica Centrafricana, mettendo continuamente a rischio la propria vita. Alla cena, che si è tenuta nel Victoria and Albert Museum, sono state battute in asta opere di Damien Hirst e di Jeff Koons. Arte e mondanità unite per i diritti umani. Tutto serve per promuovere l’unico vero baluardo a ogni forma di barbarie.

L’arte è schiava del mecenatismo?

Takashi Murakami dntro un negozio di Luis Vitton
Takashi Murakami dntro un negozio di Louis Vuitton

Questa riflessione mi è scaturita in seguito a un articolo, comparso domenica scorsa su La Repubblica e scritto da Natalia Aspesi, dal titolo “L’arte è di moda”. Vi si metteva in luce lo stretto rapporto – ormai più che decennale tra arte e mondo della moda. Nell’articolo si ripercorrevano le collezioni e i favolosi contenitori di arte aperti in questi anni dai grandi mecenati della moda, come Palazzo Grassi e Punta della Dogana (di Pinault, patron del gruppo Kering), a Venezia, come il più recente centro d’arte contemporanea della Fondazione Prada, sempre a Venezia, o l’appena inaugurata Fondazione Louis Vuitton, opera di Frank Gehry a Parigi.

Fondazione Louis Vuitton, Paris
Fondazione Louis Vuitton, Parigi

Questo connubio ormai è un dato di fatto. Però io non posso esimermi dal sentire che qualcuno ha preso qualcosa all’arte. Mi accade ogni volta che mi imbatto in una manifestazione di questo sovrapporsi di moda e arte, come quando cammino per strada e mi trovo davanti a vetrine di case di moda firmate da artisti. E’ un po’ come quando i turisti in giro per il mondo scattano le foto alle persone del luogo, pur sapendo bene che queste ultime non vedono la cosa con favore perché si sentono derubate della propria anima.

Certo, sappiamo bene che non siamo di fronte a niente di nuovo, perché l’arte da sempre è stata legata ai suoi committenti; basti pensare – uno per tutti – alla Chiesa. Le opere più importanti della storia sono nate da un gioco di forza tra il committente che voleva qualcosa e l’artista che la concedeva lottando comunque sempre per la propria libertà.

Ma cosa cerca la moda nell’arte contemporanea? Cerca di agganciare la creatività e il pensiero degli artisti per colpire gli acquirenti, sempre più in difficoltà a distinguersi con un paio di scarpe o una borsa. “I signori della moda” come li chiama Natalia Aspesi sono interessati a mettere il loro marchio sull’arte.

E quale arte prediligono e promuovono? È una questione di trend: c’è una chiara predilezione per quel che colpisce subito e si predilige un’arte provocatoria, con quel tanto di cinico che fa snob. E’ tornata la narrazione, il figurativo, e un interesse anche per il tragico, basta che abbia qualcosa di esteticamente immediato. Si vedono sempre meno i linguaggi più ermetici e complessi, come quelli concettuali. Per chi da sempre visita le mostre, questi centri , che tanto dettano legge nel mercato dell’arte, sembrano come un giro di giostra.

Carsten Holler, Fondazione Prada, The Doubel Club
Carsten Holler, Fondazione Prada, the double Club

Ma un giro di giostra è poi un male? No, niente catastrofismi è solo una direzione dei marchi del lusso, unici in questo momento interessati a spendere e a promuovere l’arte. Così mentre il “regno dell’effimero cerca l’immortalità” e le quotazioni dell’arte si impennano, atteniamoci a ciò che si vede e attendiamo il momento in cui questa fase lascerà spazio a nuove sfide e magari chissà a maggior libertà.

Perchè odio l’arte di Jeff Koons

Le opere di Jeff Koons sono presenti in questi mesi in Svizzera, alla Fondazione Beyeler, con una grande mostra a lui dedicata.

Consiglio di vederla, ma fate attenzione perché chi vedrà le sue opere per la prima volta potrà rimanerne affascinato o irritato. A me succede sempre di provare il secondo stato d’animo.

A dire il vero, il mio primo incontro con le sue opere è avvenuto a Venezia, alla biennale del 1990. Ero in compagnia di mio padre e alle Corderie mi trovai di fronte ad una grande scultura policroma, a grandezza naturale, che ritraeva l’artista stesso in un amplesso con la porno star Cicciolina, all’epoca sua moglie.  Avevo poco più di venti anni ma ricordo il senso di disagio e imbarazzo.
Oggi sono certa che la mia irritabilità nei suoi confronti non è più imbarazzo, ma rabbia. Perché so che questo artista americano, definito un’artista neo-pop, manipolatore dei mezzi di comunicazione, illustratore ironico della vita americana e del consumismo, ha fatto centro e le sue opere hanno colto appieno la nostra epoca.

Nel suo mondo ludico, di giochi e pupazzi giganti, leggo il fallimento dell’occidente, dove l’uomo ha messo al centro della sua vita l’apparenza e dove tutto è merce di scambio, per alimentare una macchina che produce ricchezza materiale. Non c’è sobrietà nelle opere di Koons, come non c’è sobrietà nella società in cui vivo. Allora davanti alle sue opere tutto è possibile, ci si ritrova come su una giostra: si vivono attimi intensi di svago in un caos quasi piacevole e anestetizzante.

Ecco perché odio l’arte di Jeff Koons: perché mi ricorda tutto quello da cui vorrei sottrarmi.

La mostra sarà alla Fondazione Beyeler  dal 13 maggio al 2 settembre. In mostra troverete molti dei suoi lavori e nel giardino della fondazione potrete ammirare la scultura monumentale composta di fiori intitolata Split-Rocker.