Nella scatola di Roxy in the box

Se nel Regno Unito (chissà fino a quando unito…) hanno Banksy, l’anonimo e geniale “graffiti artist”, noi in Italia, meglio, a Napoli, abbiamo Roxy in the box, al secolo Rosaria Bosso, professione artista.

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Figlia della città partenopea dove ha studiato e lavora, Roxy in the Box parte dal questo immenso calderone di contraddizioni, dolore e fantasia che è Napoli per sferrare una pungente critica alla società contemporanea che indaga, colpisce e schernisce attraverso pittura, video, istallazioni e performance. Veicola il suo messaggio attraverso la Pop art, ricca di colori vivissimi che, come lei stessa afferma, “riempiono” i suoi neri, e un’ironia graffiante che non risparmia niente e nessuno.

Analisi dei problemi sociali ed etici, occhio puntato sulla quotidianità difficile di centinaia di migliaia di persone, Roxy elimina dalle sue opere ogni tipo di retorica rendendo ancor più drammatici i temi che tratta.

In questi giorni a Napoli ha intrapreso un’azione pittorica e performativa dal titolo “Storie che hanno fatto la storia” in cui, grazie alla collaborazione degli studenti dell’Accademia di belle arti di Napoli, dipinge e dà voce a nove personaggi che appartengono all’identità artistica della città.  Concetta Barra, Artemisia Gentileschi, Bud Spencer e gli altri, rivivono in piazza Montesanto, dipinti sui basamenti degli ulivi che ornano lo spazio urbano. Su ogni basamento c’è anche una citazione, il messaggio è che la storia deve aiutarci ad andare avanti e pertanto noi dobbiamo sostenere a nostra volta la storia, anche quella di personaggi poco conosciuti che ne sono stati protagonisti. I giovani attori hanno instaurato con i passanti un forte legame raccontando la storia di coloro che erano stati dipinti. Tutti avevano un interprete tranne Totò che l’artista ha voluto lasciare all’interpretazione di chiunque volesse raccontare una storia su di lui, quasi come se lui più di tutti gli altri incarnasse il vero spirito napoletano.

Interessante e bizzaro.

La sala di lettura

Roberto Barni
Roberto Barni

copL’amore Molesto di Elena Ferrante

Nella nostra sala di lettura ognuno può esprimere la propria opinione. Finora ho sempre parlato di libri che ho amato, che mi sono piaciuti oppure che mi sono interessati. Oggi invece mi trovo ad esprimere un giudizio che mi vede decisamente controcorrente rispetto non solo alla critica ufficiale, ma anche al pensare comune.
È necessaria una breve introduzione. Confesso che ho incominciato a leggere L’amore molesto di Elena Ferrante solo dopo aver scoperto che all’estero era diventata lei stessa un “caso” editoriale ancor prima che la sua opera venisse conosciuta e apprezzata. Infatti ciò che ancor prima dei suoi romanzi ha affascinato i lettori anglosassoni è stato il mistero che avvolge la sua identità. Pare infatti che americani e inglesi abbiano sviluppato la “Ferrante Fever” a partire dal “mysterious power of Elena Ferrante”, come lo ha definito il New Yorker: chi sia, se sia uomo o donna, se si tratti di un personaggio noto che si nasconde dietro pseudonimo, che celarsi al pubblico sia una sottigliezza mediatica, una furberia birbona o una paura da sociopatico, nessuno lo sa. E in un ambiente come quello dell’editoria in cui il presenzialismo mediatico gioca ormai un ruolo importante per l’affermazione di un autore, il mistero che avvolge questa figura, che concede interviste non solo con l’intercessione della sua casa editrice, ma soprattutto solo attraverso e-mail, ha dello straordinario.
Ma passiamo al libro, il primo ad essere pubblicato della scrittrice (per comodità mi riferirò a lei come se fosse sicuro si tratti di una donna) scritto più di vent’anni fa nel 1992, che narra la vicenda di una figlia che torna nella città in cui è cresciuta, per il funerale della madre, morta suicida in circostanze misteriose. La città in questione è Napoli declinata nel peggiore dei modi: una città caotica, villana, appiccicaticcia, in cui anche il tempo non è clemente e il mare  pare “carta velina violacea fissata su una parete sbrecciata”. Una città vista dagli occhi di una donna che qui ha sofferto, e molto, non per il solito amore sbagliato giovanile, ma proprio a causa del profondo e, in un certo senso malato, amore per sua madre. La vicenda si dipana fra passato e presente fra sogno e realtà nel tentativo di ricostruire un puzzle che la memoria non vuole affatto ricomporre, per dare senso a una morte che, nonostante le affermazioni e l’atteggiamento della protagonista, pesa sul cuore come un macigno.
Il libro è scritto bene, si legge tutto d’un fiato eppure… eppure non sono riuscita ad apprezzarlo! Una vicenda troppo sfuggente, un’ambientazione disturbante, una protagonista sempre in bilico fra la paura e il desiderio di sapere e di ricordare ciò che ha destabilizzato la sua intera esistenza. Figura volutamente scostante Delia è in bilico anche fra amore e fastidio nei confronti di una madre irresoluta e un padre violento. Un libro di segreti inconfessabili e amore incompreso, comunque da leggere.

 

Siete pronti per discutere con noi Il giuoco delle perle di vetro, di Hermann Hesse? L’11 dicembre si avvicina, mancano poche settimane, dunque coraggio! Mettetevi all’opera.

 

Ancora Gomorra

Tv: 'Gomorra - La serie'; dal 6 maggio debutta su Sky Atlantic“Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d’Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale… In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è presa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio. È qualcosa di più essenziale, di ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche di estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare”.

Così si chiude Gomorra, il potente affresco che Roberto Saviano pubblicò nel 2006, presentando al mondo intero con una prosa secca, precisa e con immagini dure e sconvolgenti il “sistema” camorra. È da questo libro che nel 2008 è stato tratto il film intitolato Gomorra, diretto da Matteo Garrone anch’esso un capolavoro, freddo, crudele senza possibilità di redenzione, come il libro.

E poi sulla scia del successo ottenuto è nata anche la serie televisiva prodotta da Sky, Cattelaya e Fandango, con la regia di Stefano Sollima e la fotografia, fredda e graffiante di Paolo Carnera. La serie è già un mito. Venduta in 40 paesi è stata definita da Aldo Grasso “una corsa spettrale, livida, notturna, che spaventa e seduce, come fosse il racconto di una civiltà esausta, senza redenzione” dove “il male perde i contorni rassicuranti dell’estraneo e ne acquista di più familiari, quelli che ci appartengono”. 

La serie è girata e recitata con grande maestria e competenza (bravi gli attori, perfetti nei loro ruoli, quasi mitica nella sua ferocia la figura del boss Savastano), si intuisce la mano di Saviano che ha aiutato gli sceneggiatori a mostrare questa umanità decisamente perduta. Tuttavia la cosa più sconvolgente, perché è questo che mi ha colpito, è proprio il suo aspetto seducente di prodotto perfettamente confezionato, che ottiene ciò che promette. Guardando questa serie infatti (come guardando gli americani Dexter, o Breacking bad, in cui l’orrore fa da padrone) lo spettatore quasi si affeziona, quasi dimentica che si tratta di bestie feroci, diventa partecipe delle azioni dei protagonisti, fa il tifo per un cattivo piuttosto che per un altro. La televisione ci ha abituato a qualunque tipo di orrore, ed è forse questo allenamento continuo che fa perdere di vista allo spettatore la realtà brutale dei fatti. Ma non dimentichiamo una cosa fondamentale se nelle serie americane l’orrore è “solo” una rappresentazione, qui è la realtà che tragicamente viene messa in scena, ma la perfezione del prodotto ce lo fa dimenticare.

L’idea, macchina che crea l’arte

Continuiamo il nostro viaggio ideale durante queste feste di Natale. Dopo Roma e la Galleria Borghese, propongo  di scendere a Napoli dove, dal 15 dicembre, si è aperta una mostra dal titolo “Sol Lewitt e i suoi artisti”. Sua è la frase che dà il titolo a questo articolo.

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Sol Lewitt potrebbe risultare, a chi non è avvezzo all’arte contemporanea, un’artista tosto da comprendere e da assimilare, almeno al primo incontro. Anche se cosi’ è, io vi proporrei comunque di non scoraggiarvi, perché questo personaggio americano, teorico dell’arte minimale e concettuale fin dagli anni Sessanta, è un caposaldo dell’arte contemporanea.  Egli si dedicava a pensare e riflettere su tutte le possibilità di espressione offerte dalle della forme geometrihe primarie.  Se andate a vedere il suo lavoro non cercate il racconto; lui non ha mai  da raccontarvi un fatto o da lasciare  traccia del suo punto di vista:  ha studiato tutta la vita per offrirci tutte le possibilità combinatorie delle  forme geometriche, come ad esempio il cubo. Sol Lewitt ci lascia le norme, le combinazioni delle forme, come quando si dedica a quantificare e rappresentare tutte le possibilità di rappresentare due linee che si incontrano.

Non cercate il sentimento facile quando andate a vederlo, ma la struttura fondante dei segni che accompagnano la nostra vita. La sua opera fondata su rigorosi calcoli matematici  è in ultimo  la trasposizione delle sue pratiche di logica. Il pensiero di Sol Lewitt è il pensiero di un teorico di un filosofo che ha la forza di rifondare i principi dell’arte.

Sol Lewitt
Sol Lewitt

Allora vedrete linee spezzate, in bianco e nero e a colori, cubi, forme geometriche seriali in progressione. Non disperate e cercate la logica matematica di questi progetti. E se vi domanderete come hanno fatto a trasportare le opere sulle pareti del museo ricordatevi che l’artista non ha mai dipinto direttamente tutto il suo lavoro.  Lui esprime il suo progetto, descritto minuziosamente, per poi lasciare  ai suoi assistenti il compito di eseguire l’opera. A loro dovevano essere sufficienti le sue direttive . Ciò che conta nel suo lavoro è il concetto, l’idea, non la realizzazione.

E ciò che mi piace di più è che l’idea è di tutti e rimane nell’aria per sempre.

La mostra resterà aperta fino al 1 aprile ed espone anche la sua collezione di opere di altri artisti.

Il Babà… un gran signore!

Nella nostra mente rimangono impressi vividamente non solo persone, luoghi, fatti o personaggi, restano indelebili anche gusti, colori, profumi o situazioni (quali lo sciabordio del mare o il frinire delle cicale o ancora il rumore del vento fra gli alberi). I ricordi che vengono scatenati da queste sensazioni sono tanto più profondi quanto più esse sono intense, e hanno la capacità di riportarci indietro nel tempo, spesso direttamente alla nostra infanzia e al suo mondo magico.

Così, non posso stappare una gassosa, che il rumore del gas in uscita mi riporta direttamente al chiosco sul lungomare, dove il mio papà nelle sere di luglio ci comprava il succo di limone emulsionato con acqua ghiacciata, zucchero e bicarbonato; oppure non posso sentire l’odore del giornale appena stampato, perché immediatamente mi ritrovo sulla spiaggia, in fila per comprare la «zeppola» appena fritta, abbondantemente passata nello zucchero e cannella e appoggiata proprio sul giornale del mattino per farle «sudare» tutto l’olio in più…

… scusate, mi rendo conto che tutto ciò è molto «proustiano», ma mi serve per introdurre un argomento al quale tengo molto.

Se, infatti, sento nell’aria il classico profumo di dolce appena sfornato, il ricordo che si staglia chiaro e gigante nella mia mente è il babà! Lucido, di color ambrato, a forma di grosso porcino, con o senza crema, con o senza ciliegina, adagiato mollemente ad aspettarmi nella sua carta arricciata e piena di delizioso sciroppo di zucchero e rhum.

Per anni mi è stato detto (la mia prodigiosa prozia, seguita da mia madre e dalle sue sorelle) col sorrisetto agli angoli delle labbra: «é inutile cercare di rifare il babà a casa… tanto non verrà mai», ed io, ligia al divieto famigliare, ho sempre badato a comprarlo in pasticceria.

Ora però che sono fuori dall’Italia il babà dove lo trovo? Allora mi sono messa di buzzo e ho iniziato a provare tutte le ricette sulle quali sono riuscita a mettere le mani (libri, internet, una cugina lontana grande cuoca) fino a trovarne una che, almeno in parte, mi riportasse al delizioso sapore conosciuto.

Che gli avi mi perdonino per ciò che sto per dire !

In effetti, la ricetta che mi ha dato finora i migliori risultati non arriva da qualche voluminoso compendio di cucina napoletana o dalla bocca di un vecchio pasticcere che prende un po’ di fresco nel vico, ma… (ahimè) dal Mastering the art of French Cooking di Julia Child (sì sì proprio quella del film Julia and Julia interpretato da Meryl Streep).

Del resto, per placare le mie ansie, posso dire che il babà pare non essere stata neppure un’invenzione napoletana, infatti, risalgono alla metà dell’Ottocento circa le prime fonti partenopee, mentre notizie di un dolce simile ci arrivano addirittura dalla lontana Polonia. Il babka ponczowa, era, infatti, una specie di ciambellone che veniva riempito di crema, poco dolce e un po’ soffocante, che fu rivisitato dal sovrano Stanislao Leszczyński, che si dilettava di cucina, il quale, per renderlo un po’ più appetibile, lo «bagnò» per la prima volta con una miscela di Tokaj e zucchero!

Dunque vi passo la ricetta di Julia, aggiungendo qualche avvertenza preliminare:

Il babà è un gran signore e come un gran signore vuole essere trattato. Lavoratelo in un luogo caldo, ponetelo a crescere in posto lontano dalle correnti d’aria. Una volta cotto aspettate che l’umidità della pasta venga completamente eliminata prima di imbibirlo dello sciroppo. Può essere congelato facilmente e con successo, ma prima di essere inzuppato di sciroppo lo dovete far scongelare nel forno a 150 gradi per 5 minuti.

Che altro ? Ah, sì seguite le dosi (per 12 babà) e i tempi di crescita e cottura con esattezza. Darò la ricetta con le misure americane (tazze, cucchiai da tavola ecc.) perché non mi azzardo a farne la conversione (su internet si trovano programmi appositi e se non avete i misurini americani potete dilettarvi a convertire le dosi).

Pronti?

4 Tb di burro

1 Tb di lievito di birra fresco (che profumo!)

3 Tb di acqua calda

2 Tb di zucchero

un pizzico di sale

2 grandi uova

1 cup e 1/3 di farina

Mescolate l’acqua calda con il lievito finché si sia sciolto bene. Aggiungete le uova, lo zucchero e il pizzico di sale e lavorate finché tutto sia ben amalgamato con un cucchiaio di legno. Aggiungete la farina e continuate a mescolare. Ora, dopo che l’impasto è ben amalgamato, con la mano a coppetta continuate a impastare in modo circolare, poi staccate l’impasto dalle pareti, mescolatelo e sbattetelo violentemente contro di esse, ripetendo questa operazione, che sembra scema ma é fondamentale,  per almeno 5 minuti. All’inizio l’impasto è appiccicoso e si incollerà alle dita, ma mano a mano che procedete con questa operazione si staccherà sempre più facilmente da dita e recipiente. Una volta arrivati ad una consistenza che vi permetta di tenere l’impasto in mano (senza cioè che scivoli via…) fatene una palla, con un coltello fate un’incisione leggera a croce e deponetelo in un contenitore, ricoperto con un panno pulito in un luogo caldo (fra i 25 e i 45 gradi) per 1 ½ – 2 ore.

Una volta cresciuto l’impasto (sarà enorme !) gentilmente con una mano staccatelo dalle pareti e dividetelo in 12 stampini da babà (se non li trovate vanno bene anche quelli per i muffin, il risultato finale sarà però un po’ diverso) già spalmati di burro e infarinati. Ora ai babà occorrono altre due ore di lievitazione, ognuno nel proprio stampino, nello stesso luogo caldo e senza sbalzi di temperatura e correnti d’aria, fino a che la pasta non arrivi quasi al bordo, prima di essere pronti alla cottura che dovrà essere breve ma intensa (250 gradi per 15 minuti).

Ce l’abbiamo quasi fatta !

Mentre i babà cuociono preparate lo sciroppo al rhum con

2 cup di acqua calda

1 cup di zucchero

½ cup di Rhum (quello scuro, se vi piace un po’ piu alcolico potete aggiungere altro rhum)

In un pentolino fate scaldare lo sciroppo finché tutto lo zucchero sarà sciolto. Togliete dal fuoco e fate raffreddare.

Quando i babà saranno cotti aspettate che si raffreddino e poi procedete al bagno nello sciroppo.

Se tutto è andato bene il risultato sarà dolcetti morbidi e spugnosi, ma sodi (tanto che se li strizzate ritorneranno alla loro forma) che affogati nel liquido si gonfieranno deliziosamente.

Alla fine potrete spennellarli con una miscela di marmellata di albicocche e acqua, che li renderà lucidi, ma io preferisco sbranarli così.