Cross the street al MACRO

Writing e Street Art possono essere storicizzati?

Questa pratica artistica e mediatica è l’unica avanguardia che è riuscita a conciliare gioventù, periferie e minoranze della globalizzazione, creando una vera e propria contro cultura nata da un fenomeno underground di protesta giovanile.

E non solo, Writing e Street Art sono arrivati a contaminare molti campi della cultura e dell’arte, dalla moda alla musica, dal cinema alla fotografia, fino alla pubblicità divenendo di dominio pubblico ed entrando di prepotenza nel museo.

Per questa ragione il MACRO di Roma dedica a questo fenomeno la mostra, a cura di Paulo von Vacano, che raccoglie e racconta 40 anni di Street Art e Writing, ospitando i più importanti artisti che hanno segnato le tappe fondamentali di questo movimento a livello internazionale e locale.

“Lo scopo di Cross the Streets è quello di indagare, a livello globale, la potenza e la fascinazione di questa multimedialità estrapolandone le linee guida, i pionieri mondiali, i fenomeni di costume da essa generati e, a livello locale, la storia del graffitismo romano” si legge nella presentazione, e ancora “l’allestimento di Cross the Streets porta fin dentro il museo il linguaggio della Street Art: per l’occasione il MACRO viene contaminato da elementi leggeri e temporanei, dalla segnaletica orizzontale che dalla strada entra direttamente nella sala grande, ai teli da impalcature che ne trasformano il grande spazio in una scena urbana da esplorare. Molti dei materiali torneranno ad essere riutilizzati nei cantieri edili… il passaggio di un processo costruttivo in cui gli sprechi sono ridotti al minimo e la vita dei materiali impiegati non si conclude con la mostra ma continua altrove”.

La mostra si protrarrà fino al primo ottobre del 2017. Strana e interessante… da visitare

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Annette Messager, Histoire de robes, 1990

Siete rattristate per lo squallore della televisione pubblica italiana? Per come siamo state trattate, in quanto donne dell’est o dell’ovest? Per tirarvi su di morale, e mandare tutti a quel paese, vi consiglio di vistare la mostra di Annette Messager,  presso Villa Medici, a Roma. Francese, pluripremiata e conosciuta nel mondo dell’arte, Annette Messager rappresenta bene il mondo delle donne: da femminista convinta quale è, sa raccontarne in modo ironico e tagliente il ruolo nella società.

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Annette Messager, Villa Medici, Roma

Il suo lavoro è un assemblage di oggetti trovati, fotografie, collage. I suoi temi svelano molto spesso  l’intimità, le paure nascoste, i dolori delle donne. Come la serie “Histoire de robes”: una serie di vetrine contenenti eleganti abiti femminili sui quali erano con spillate delle piccole pitture o delle fotografie. Ogni vetrina era il un ritratto di una donna diversa.    

La mostra rimarrà aperta fino al 29 aprile, le opere si trovano negli spazi interni e nel giardino. Fra queste, troverete anche una curiosa carta da parati, con delle coloratissime farfalle: in realtà uteri multicolori svolazzanti. Le donne di Messager sono un po’ delle fattucchiere, mostri con dita fatte da matite appuntite, volti poco rassicuranti che potete starne certi nessuno italiano vorrà mai sposare.

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Annette Messager, Villa Medici

Bambini, chi li difende davvero?

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Balthus, Children, 1937

Non posso lasciare andare; non riesco a mettere tutto dietro alle spalle e tuffarmi su altre notizie. L’indagine dell’espresso del 25 febbraio condotta da Floriana Bulfon e Giovanni Tizian, dedicata ai ragazzi immigrati che abitano nel sottosuolo della Stazione Termini,  disposti a vendersi pur di non morire di fame, resta come un chiodo fisso nella mia testa.images-1

Prima di questa indagine nessuno ne parlava. Perché? Nessuno sapeva? Nessuno vedeva?

Mentre in  questi giorni ci strappiamo le vesti per i diritti dei bambini, leggo che  “secondo l’Europol diecimila minorenni non accompagnati arrivati in europa nel 2015 sono scomparsi”. Partendo da questa indagine, l’Unicef si sarebbe mossa con il ministero degli interni firmando un “protocollo” per monitorare i minorenni non accompagnati che arrivano nel nostro paese. Mi chiedo: perché firmare ora questo protocollo? Cerco e vedo che  la Convenzione di Dublino del 1990, con il regolamento del 2003, parla già chiaro riguardo a questo: i minori non accompagnati che arrivano sulle nostre coste hanno DIRITTO ad un tutore legale che si prenda cura del minore. Vi si parla di PROTEZIONE internazionale e soprattutto della possibilità ad essere ricongiunti ai parenti che si trovano in altri stati. Eppure qualcosa non funziona. Leggo ancora: i tempi per i ricongiungimenti sono troppo lunghi, molti di questi ragazzi vengono affidati a delle case famiglie, ma non ci stanno e scappano. Perché?  Non funzionano? Se una casa famiglia perde tanti ragazzi fallisce nella sua missione. Mi ricordo di una grande casa famiglia che avevo conosciuto quando vivevo in Etiopia: era portata avanti da degli ecceimgreszionali educatori italiani. Gigi, uno di loro, partiva tutte le notti: andava in giro per Addis Ababa a cercare  ragazzi e ragazze di strada, per invitarli a entrare in casa famiglia e compiere un percorso educativo. Con l’esperienza avevano trovato un modo di avvicinarli, di entrare in contatto con loro. Certo non tutti accettavano, ma molti di loro si lasciavano coinvolgere. Tutto si basava su un rapporto di fiducia, rispetto e stima reciproca.

I  poliziotti a Roma  non sanno più come far fronte a questa emergenza; il Prefetto addirittura sostiene che questa situazione va avanti ormai da decenni e che dunque è come un malato cronico impossibilitato a guarire.

Ci vorrebbero i miei amici di Addis, la loro esperienza, il loro cuore.

“ Gli amici mi dicevano che Roma era bella, ma non ho mai visto una persona buona qua”. Parole di Abdul di dodici anni, arrivato per mare risalito, dalla Sicilia e oggi per strada.

Architetture inumane

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E’ curioso leggere l’articolo apparso su House &Home, uno dei supplementi del Financial Times, il fine settimana. E’ dedicato a quelle architetture nel mondo che si possono anche descrivere usando l’aggettivo “inumane”. L’articolo ne sceglie nove e tra esse, ahimè, c’è anche il nostro MAXXI, Il museo d’arte contemporanea di Roma, disegnato dall’architetta Zaha Hadid, inaugurato nel 2009 dopo dieci anni di lavori. Il problema è che non si riesce a dar torto all’articolo: il museo è da capogiro, non ci sono stanze e non si è operata nessuna distinzione tra gallerie e corridoi. L’effetto del MAXXI è spiazzante: non si riesce a seguire un filo conduttore e molte volte anche le opere vengono sminuite dagli ampi spazi aperti. In sua difesa, pero’, potrebbero correre tutti quei curatori e studiosi che credono nella necessità di confondere il visitatore, allontanandolo dal percorso abituale di un museo tradizionale. Uno di questi, ad esempio, è il direttore del museo Mamco di Ginevra dove – non per motivi legati all’architettura, ma per sua precisa scelta curatoriale – è stato allestito un percorso fatto di ambienti molto diversi tra loro, che non si fondono con coerenza perché pensati per spiazzare il visitatore.

L’articolo del Financial Time prosegue con altri otto edifici che qui di seguito vi elenco:
-J.Edgar Hoover Building a Washington DC (la sede del FBI);
-Nehru Place, New Delhi costruito negli anni Settanta;
-European Parliament di Strasburgo, inaugurato nel 1999;
-The Mogamma Cairo costruito a fine anni Quaranta;
-The national Palace of Culture, di Sofia, Anni Settanta;
– La stazione di Shinjuku, Tokyo;
-The Barbican, a Londra, inaugurato nel 1969;
-La Grande Hall of the People, a Pechino, costruita negli anni Cinquanta.JR-East-Shinjuku-Station-South

Come vedete, nella lista, si trova di tutto: musei, stazioni, sedi del parlamento o centri commerciali. L’articolo comincia con un battuta di Winston Churchill riportata dallo scrittore Kate Allen : “Noi diamo forma ai nostri edifici e dopo gli edifici formano noi”. Una battuta, certamente, ma tanto vera da fare pensare: sono sicura che ognuno di noi ha subito, nell’ambiente in cui è cresciuto, il fascino o semplicemente la presenza a volte un po’ troppo ingombrante, di un qualche edificio.

Hans Memling Rinascimento fiammingo

Hans Memling, Ritratto di donna 1470
Hans Memling, Ritratto di donna, 1470

Nel XV secolo due sono i centri principali del rinnovamento artistico europeo: Firenze e le Fiandre. Questo perché sono anche due grandi poli economici, proiettati – si direbbe oggi – su scala globale con i propri mercanti e con i propri banchieri. E’ infatti assodato che spesso l’impulso artistico vive in simbiosi con robuste realtà economiche.

Ma vi sono differenze. Gli artisti fiorentini si orientano verso l’antico e intraprendono, per mezzo della razionalità e delle propoporzioni matematiche, un percorso che li condurrà verso l’applicazione della prospettiva in ogni forma artistica. Nelle Fiandre, invece, l’arte si evolve verso uno sguardo preciso sulla realtà della vita quotidiana, cercando di rappresentare nel modo più fedele possibile ciò che si presenta davanti agli occhi del pittore: ritratti di ricchi borghesi e mercanti, abiti lussuosi, interni di case, profili delle città e ogni segno di opulenza. Un nuovo spirito che ben fu descritto da Van Eyck, inventore della tecnica della pittura ad olio.

I toscani, ma direi tutti gli artisti italiani dell’epoca, ebbero con le Fiandre un rapporto molto intenso. Molti committenti si fecero ritrarre dai pittori fiamminghi, come nel celebre caso dei coniugi Arnolfini, opera di Van Eyck oggi a Londra. Chi volesse approfondire il rapporto tra Italia e Fiandre nel XV secolo, non può perdersi la mostra che si è aperta da poco a Roma, alle Scuderie del Quirinale, dedicata all’opera del pittore Hans Memling e al rinascimento fiammingo.

Hans Memling, Ritratto di uomo , 1473
Hans Memling, Ritratto di uomo con moneta romana , 1475

Memling fu un ritrattista famoso. Di origine tedesca, aprì nel 1465 la bottega a Bruges divenendone in poco tempo il centro di committenza più conosciuto. Ricercato infatti da molti banchieri e da ricchi mercanti italiani, lavorò e contribuì ad intrecciare un dialogo articolato tra la pittura fiamminga e quella italiana. In mostra si potranno vedere i ritratti più famosi assieme alle opere religiose devozionali. Attraverso quelle immagini si può veramente comprendere meglio quel corridoio culturale che unì per un secolo l’area fiamminga, con il mondo dell’arte italiana.

Un percorso ancor più interessante per chi oggi si affanna a capire le origini di un percorso di unificazione europeo, che tanto fatica a trovare uno sbocco armonioso.

La mostra è da non perdere e resterà aperta fino al 18 gennaio. Chi ne volesse sapere di più vada sul sito: www.scuderiedelquirinale.it

Res gestae divi Augusti…

pappagallo… è una lunga lista, scritta dallo stesso Ottaviano Augusto, di tutte le cose memorabili da lui compiute, che si conclusero con la creazione di un impero duraturo e potente.

Nel 2014 si celebra il bimillenario di Ottaviano Augusto, morto il 19 agosto del 14, e per festeggiare degnamente questa data a partire dal 18 settembre prossimo verrà riaperta a Roma la casa dell’imperatore sul colle Palatino e quella della moglie Livia attigua alla prima, restaurate in tutta la loro magnificenza dopo oltre sei anni di chiusura al pubblico.

Venute alla luce nell’800 le due dimore si trovavano in uno stato di quasi completo abbandono con infiltrazioni di umidità che ne minavano le basi. Grazie a stanziamenti straordinari e all’opera di restauratori che hanno lavorato indefessamente le stanze dell’imperatore e della consorte brillano oggi di nuovo splendore. Gli affreschi caduti della stanza da pranzo di Livia sono stati completamente recuperati. Le stanze affrescate della biblioteca greca e latina di augusto hanno recuperato i loro colori. Nuovi particolari dimenticati sono venuti alla luce, come l’immagine di un pappagallino giallo o le decorazioni a festoni che ricordano un giardino.

“La Casa di Augusto al Palatino rappresenta non solo un luogo denso di significato storico, ma costituisce anche uno degli esempi più raffinati ed eleganti delle pitture che decoravano gli ambienti delle abitazioni patrizie”, insomma un gioiello recuperato, in cui grande importanza hanno avuto anche le soluzioni tecniche adottate per sanarne i problemi.

 

Procuratevi una “seduzione etrusca”

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È il titolo della mostra che è in corso a Cortona, nel palazzo Casali e fino al prossimo 31 luglio. Titolo quando mai appropriato se del caso cambiabile con termini più forti: fascinazione, forte attrazione, innamoramento.  Perché la mostra ha proprio un livello seduttivo, per chi volesse sia iniziare che approfondire gli studi sulla civiltà dell’antica Etruria. Civiltà – oggi lo si sa bene – non più “misteriosa”, come si pretendeva un tempo, quando si disquisiva sul come fosse nata ( la controversia questione delle origini), come sviluppata lungo i vaticinati dieci secoli (non però di consueta durata, ma contrassegnati entro eventi peculiari), quali i rapporti con i romani che li assorbirono, subendone e serbandone una profonda attrazione. Magari anche politica e culturale, se è vero che alcuni dei famosi re di Roma furono etruschi e che l’imperatore Claudio fu il primo etruscologo.

La seduzione viene dal fatto che questa mostra, una delle moltissime che negli ultimi decenni sono state fatte, per la prima volta presenta e documenta criteri informativi sulla nascita di quella disciplina che chiamiamo etruscologia. Sappiamo che fu iniziata nel Settecento, quando cominciarono ad emergere reperti dalle necropoli nelle cui ricche tombe giacevano da secoli raffinati arredi, opere d’arte, sculture, pitture che registravano i contatti con il mondo greco, testimoniavano un’ elegante cultura dominata dall’ignoto, garantivano che fra le popolazione italiche pre- romane gli etruschi avevano un ruolo di spicco.

Arringatore, Museo Archeologico di Firenze
Arringatore, Museo Archeologico di Firenze

La mostra di Cortona prende l’avvio dal viaggio che un giovane nobile inglese Thomas Coke (1697-1759) fece, imbarcandosi a Dover nel 1712, per il continente; accompagnato dal suo precettore e da un valletto. Quest’ultima figura risulta, ai nostri fini, importante : perché aveva fra i suo compiti di servizio quello di registrare tutte le mete del viaggio, le spese effettuate, i siti notevoli e quant’altro poteva comporre una specie di diario del memorabile. Cosi sappiamo che il giovane Thomas (poi primo conte di Leicester) compì quello che ai suoi tempi, come richiesto dal ceto cui apparteneva, era il Gran Tour nei paesi delle civiltà classiche. Sostò a Roma ed a Firenze si interessò, d’arte e di storia, rimase affascinato da questa civiltà che stava emergendo da un passato di cui poco si sapeva. Quel poco, però, faceva capire che era stata una grande civiltà : ed il giovane si procurò opere ( che grazie ai tombaroli – allora e non solo allora – erano disponibili ), insieme ad un trattato in latino dall’ erudito Thomas Dempster, la cui pubblicazione in Firenze fu finanziata proprio da Lord Coke: De Etruria Regali. Un titolo che è tutto un programma e che fa comprendere perché molti collezionisti, da allora, volessero reperti archeologici riconducibili a questa “regale” Etruria. Molti reperti, trovati nel territorio di Cortona ( al centro di quell’ Etruria classica compresa tra il Tevere e l’Arno) andarono a finire al British Museum; che ora, per la prima volta, li ha dati in prestino a Cortona nella quale, fin dal settecento era nata l’Accademia Etrusca. Cui si erano iscritti i più noti intellettuali dell’epoca e che aveva attirato l’attenzione di molti inglesi. Assai opportuno, quindi, il prestito generoso del British Museum; che unisce, al materiale dato altre opere ( la più conosciuta è la statua dell’ Arringatore dell’Archeologico di Firenze) che compongono un ampio e originale compendio culturale.

La grande bellezza

La-Grande-Bellezza-la-critiqueÈ di ieri la notizia, che ci rende assolutamente orgogliosi, che l’ultimo film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, si è guadagnato il Golden Globe come miglior film straniero battendo la Palma d’oro a Cannes La vita di Adèle, l’iraniano Il passato, il danese The hunt, il giapponese di Miyazaki The wind rises.

Questa vittoria è il riconoscimento della vitalità del cinema italiano e spiana a Sorrentino la corsa verso l’Oscar (di cui gli auguriamo la vittoria non solo per questo suo ultimo sforzo, ma per l’intera sua filmografia).

Ho amato e odiato questa pellicola, recitata in modo supremo da un Tony Servillo in grande forma, attorniato da attori (Verdone e Ferilli per citarne due) eccezionali che, ognuno a proprio modo, hanno contribuito a creare un puzzle di situazioni e personaggi per lo più surreali.

Ero convinta che il film sarebbe piaciuto incredibilmente agli stranieri. Troppe, infatti, erano le atmosfere Felliniane e che si riferivano alla tradizione cinematografica classica italiana per lasciare indifferente la stampa, soprattutto anglosassone. Il Guardian inglese, in un articolo del settembre 2013 usava queste parole per introdurlo al suo pubblico: “Si tratta di un vero e proprio sovraccarico sensuale di ricchezza, stranezze e tristezza. Un film che sembra a volte dover svanire in un languore dissoluto, assaporando la propria noia come un tartufo. Ma più spesso da spazio al divertimento di una classe di ricchi uomini di mezza età, edonisti che sono capaci di farsi coinvolgere più dei giovani”.

Su tutto una Roma di una bellezza tragica, catturata dalla maestria del direttore della fotografia Luca Bigazzi, già con Sorrentino in altri capolavori quali, This must be tha place e Il Divo.

Ma, perché c’è un ma in tutto ciò, a noi italiani, forse il film lascia l’amaro in bocca. Si, perché la grande bellezza va a braccetto con una grande tristezza. Grande tristezza che ci trasmette l’occhio senza reticenze del regista, il quale mostra una Roma decadente, frivola, vuota di morale e di decenza. Una Roma dei palazzi del potere in cui tutto e tutti ammiccano e fingono, i cui tutto è permesso, in cui tutti appaiono ma non sono.

Il film è metafora del recente passato, è vero, ma ci auguriamo un riscatto nel prossimo futuro!

Ricordare l’Olocausto

deportazione degli ebrei di Roma
deportazione degli ebrei di Roma

I giorni della memoria sono importanti. Anche se a volte sembrano occasioni per liturgie e passerelle del politico di turno, sono sempre momento di riflessione, specialmente quando si ha a che vedere con la memoria di orrori quali l’Olocausto.

Per me è importante ricordare che proprio il 16 ottobre di un altro anno, il 1943, avvenne la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma: stipati in vagoni merci, furono inviati a morire nei campi di concentramento nazisti.

E pensare che oggi ci sono persone che negano la storicità dell’Olocausto: per loro, non è avvenuto, oppure è stato esagerato. A parte il fatto che anche una sola persona uccisa per motivi razziali è inaccettabile, ma sulla veridicità dello sterminio operato dai nazisti non ci sono dubbi. Vi è un’enorme quantità di fonti documentarie tipiche del XX secolo: filmati, fotografie, racconti dei testimoni e così via. Gli storici che lo hanno studiato si sono basati su un evidenza incontrovertibile. Chi lo nega o è uno squilibrato o ha intenti inconfessabili, ispirati a odio razziale.

Proprio in questi giorni, a Roma, si discute del funerale di un criminale nazista (così definito anche dalla giustizia italiana) che fu parte attiva negli orrori compiuti dalle truppe tedesche in Italia. Un uomo, non solo non pentito, ma anche convinto sostenitore delle tesi negazioniste di cui parlavo sopra.

Ricordare è importate, dicevamo. Noi italiani ci siamo macchiati dell’ignominia delle leggi razziali del 1938, quando ci unimmo alla Germania di Hitler in questa caccia assassina all’ebreo e quando negammo le dignità fondamentali a tanti cittadini italiani. E per di più li schedammo tutti, scrivendo sulle loro carte di identità che erano ebrei. Ciò facilitò il compito dei tedeschi e dei loro scherani italiani (perché ci furono i complici italiani!) quando, a Italia occupata, compirono le deportazioni, inclusa quella degli ebrei di Roma, che oggi tristemente ricordiamo. La carta di identità italiana divenne il viatico per le camere a gas.

Oggi ricordiamo non solo la deportazione da Roma, ma anche la vigliaccheria di un paese che si associò a una delle maggiori infamie del secolo appena trascorso.

Chiacchiere del Lunedì

Prova mafalde

È della settimana scorsa la notizia che a Roma in pieno centro storico, dalle parti di Piazza di Spagna, 4 turisti inglesi hanno pagato per altrettanti coni gelato 64 euro cioè 16 euro a cono.

Per carità si trattava di un gran bel cono, tre gusti, cialda croccante, quasi sette etti di gelato (la difesa del proprietario della gelateria). Noi ci chiediamo, è la solita “circonvenzione di turista”, che pare essere uno degli sport nazionali italiani, o un prezzo tale, sebbene per una leccornia tutta nostrana, è in qualche modo giustificabile?

I commenti letti su giornali e blog italiani mostrano una sana indignazione per fatti così gravi, che incidono negativamente sul turismo italiano (proprio in un periodo in cui forse si potrebbe rivelare l’unica ancora di salvezza per la nostra economia asfittica).

Hai ragione ma mi domando era esposto il prezzo oppure erano ignari di quello che sarebbero andati incontro?

La ADOC (Associazione difesa e orientamento dei consumatori) si è mostrata particolarmente dura nel bollare questo episodio (che segue di poco tempo quello dei due giapponesi che hanno pagato per un pranzo oltre 600 euro e di una turista americana che sentitasi male si è fatta trasportare all’ospedale su un’ambulanza privata ricevendo un conto di 1300 euro) come “scandalo incommentabile”.

Se diamo un’occhiata ai commenti dei media di oltre manica non manca l’ironia (come quella del Guardian ad esempio che si chiede se a Londra esiste un posto in cui il gelato è più caro di quello romano), alcuni si sono scandalizzati bollando gli italiani come truffaldini, ma un commento ci ha incuriosito in particolar modo. Quello trovato sul sito on line della BBC. Qui infatti si afferma che il prezzo di quei coni era sì scandaloso ma allo stesso tempo  mangiare un gelato a Roma è un privilegio raro, dunque bisogna essere consapevoli del fatto che in quel preciso momento non stai comprando un semplice gelato (cosa che puoi agevolmente fare in ogni angolo del mondo) ma lo stai comprando a Roma, ed é come se acquistassi un pezzo della città eterna.

Commento benevolo non c’è che dire, ma può bastare a scusare una follia del genere?

L’ironia quando è diretta a dare qualche colpo all’immagine italiana non manca mai, comunque nel mio piccolo vorrei denunciare che ieri ho comprato a Divonne, in Francia , al mercato della domenica un cestino di piccoli pomodori rossi e ho speso 12 euro . Quando mi ha detto il prezzo, mi è preso un colpo, non ho avuto il coraggio di reagire e senza fiatare sono tornata a casa con i miei pomodori d’oro.  Dopo meno di un’ora erano finiti in una sola insalata del pranzo.