Il cavaliere addormentato

Per una volta sola, lo prometto, farò anch’io un’incursione  nell’arte (?) contemporanea. Non ho le competenze e le conoscenze della mia compagna di avventura, Stefania, dunque le mie riflessioni saranno decisamente da profana.

Sfogliando i giornali, mi sono imbattuta nella presentazione di un’opera bizzarra, che mi ha (se non altro) fatto ridere di gran gusto.

L’opera in questione è un’istallazione di Antonio Garullo e Mario Ottocento intitolata Il sogno degli italiani con sottotitolo Per un’immagine definitiva dell’era di Berlusconi ed è esposta per tre giorni soltanto (fino ad oggi) a Palazzo Ferrajoli, a Roma, proprio di fronte a Palazzo Chigi.

Personalmente l’ho trovata esilarante, fantasticamente surreale e mi ha colpita per il suo stile scandalosamente kitsch.

Si tratta di una riproduzione in silicone, uno a uno, del corpo di Berlusconi, mollemente adagiato in una teca di vetro, un incrocio tra la Biancaneve in attesa del bacio del Principe Azzurro e la mummia di Lenin.

Gli artisti per realizzare l’istallazione hanno utilizzato oltre al silicone, capelli organici, stoffa, legno vetro e il risultato è assolutamente stupefacente, madame Tussauds ne sarebbe deliziata. Il particolare è che il nostro ex capo del governo è rappresentato steso nel sonno (eterno?) con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra, in doppio petto blu e cravatta a pallini allentata, con un braccio appoggiato sul pamphlet auto celebrativo Una storia italiana, che aveva fatto recapitare a tutte le famiglie italiane, le pantofole con la faccia di Topolino e la mano sinistra infilata significativamente nei pantaloni slacciati.

Rappresentazione del culto della personalità o piuttosto il corpo del capo come icona del potere? La realizzazione lascia aperte tutte le possibili interpretazioni.

I due autori nella presentazione scrivono che essa può servire a «porre un diaframma tra la realtà contingente e il giudizio storico. Se gli italiani sono in ultima analisi “Un popolo di santi, di poeti, di navigatori…” allora l’arcitaliano Silvio ne costituisce degno simulacro».

Io rimango sempre attonita davanti all’arte (?) contemporanea, ho la difficoltà del neofita a comprenderne i linguaggi… volutamente non ho mai parlato di “opera d’arte”, perché non sono sicura che questo lo sia effettivamente. Tutto sa di provocazione e forse di desiderio di pubblicità (basta che se ne parli…), ma chi vivrà vedrà!

Devo confessare però che questa volta la performance ha toccato la mia ilarità, e, sebbene priva di gusto (o per lo meno tatto), l’ho trovata ricca di spunti per ripensare alla recente storia del Bel Paese.

Quando il museo non ascolta. A Firenze: il Museo del Bargello

Il  Museo parla al pubblico era il titolo di un famoso convegno che si tenne nel 1989, a Bologna, dove si metteva in evidenza la necessità per i musei italiani di trovare modalità di accoglienza  dei visitatori più adatte a soddisfare la loro sete di conoscenza e contatto con le opere.

Non sempre, però, ciò si avvera. E’ il caso di un amico francese che, lo scorso  aprile, ha cercato di mettersi in contatto con il Museo del Bargello di Firenze per compiere una sua ricerca su un’opera ospitata nel museo: una lastra del reliquario d’Auzon. Tutto il suo entusiasmo però non ha trovato riscontro. L’amico, infatti, appassionato d’arte e turista intelligente, si era  preparato con grande cura il viaggio, anche perché si trattava di passare un’intera settimana a Firenze unendo la ricerca al piacere di visitare una delle città più belle del nostro paese. Oltre a tutto lui discende dalla famiglia a cui è appartenuta l’opera e quindi aveva anche un motivo personalissimo per vederla. Così ha scritto, in anticipo, una lettera al museo ( che si è fatto tradurre in italiano per essere certo di essere capito). Ma non ha ricevuto nessuna risposta. Perciò quando è andato a Firenze si  è presentato al museo e con la lettera, spiegando la faccenda e chiedendo di poter parlare con qualche responsabile. Purtroppo l’usciere, dopo averlo fatto accomodare, gli ha detto che ciò non era possibile perché nessuno aveva tempo per riceverlo.

È finita così. Lui non si è lamentato, quando poi me lo ha raccontato: era comunque sollevato perché ha trovato da solo l’opera dentro il museo e ha potuto vederla. Ma io che abito all’estero e sono più sensibile nei confronti delle esperienze di stranieri nel mio paese (e ancor più mi piace sentire storie edificanti sul mio paese, quando ve ne sono) mi sono dispiaciuta per lui, perché in quel caso il Museo si è fatto trovare sordo alle richieste educate di un visitatore.

Non ci piace

Alla fine è stato necessario mettere sotto sequestro la biblioteca nazionale dei Girolamini di Napoli, come hanno fatto i Carabinieri del Nucleo Tutela dei beni artistici, per cercare di arrestare lo stato di abbandono e i furti in atto da tempo nella prestigiosa istituzione.  Per ora sono stati  ritrovati, a Verona, 240 libri antichi sottratti dalla biblioteca, ma si parla di addirittura di 1500 libri quelli che mancano all’appello.

Cercate gossip su Google…

… e troverete in 0.13 secondi 306.000.000 di risultati! No, non ho realmente intenzione di raccontare se la Canalis tornerà con Vieri o se il nuovo amore di Belen è solo una trovata pubblicitaria. Infatti, come la maggior parte delle persone sane di mente, mi sollazzo con tali notizie solo quando aspetto per ore il mio turno dal parrucchiere e per caso mi sono dimenticata il libro che mi sto gustando. E la mia non è assolutamente spocchia, non vanto una pretesa superiorità intellettuale (tanto che non sono completamente a digiuno di questi argomenti!), ma il gossip, il pettegolezzo nostrano, mi dà l’occasione di riflettere sulla «prevalenza del cretino», quello che, in realtà, mi fa veramente imbestialire.

Scrivevano gli indimenticati Fruttero e Lucentini nella prefazione del libro La prevalenza del cretino (Mondadori, Milano 1985), che la bêtise é figlia del progresso, infatti, « è stato grazie al progresso, che il contenibile ‘stolto’ dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società che egli si compiace di chiamare ‘molto complessa’ gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto (molto ! ndr) denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per ‘realizzarsi’. Sconfiggerlo é ovviamente impossibile. Odiarlo é inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni». Mi scuso per la lunga citazione, ma non sarei riuscita ad esprimermi meglio…

Quanti ne abbiamo visti di questi personaggi apparire e sparire, essere intervistati e osannati, sfilare in televisione e sui giornali, insinuarsi nelle nostre vite sempre con un consiglio, una parola e un sorrisetto pseudo intelligente sulle labbra : politici, gente di spettacolo, sedicenti artisti, filosofi, psicologi tutti con un buona novella da donare, tutti tragicomicamente compresi nei propri ruoli.

Odiarli è inutile ? Sarcasmo e ironia non li scalfiscono ? La soluzione dunque sta solo a noi.

Signori, il gossip ci sta, è divertente a volte rilassante. La bêtise é tollerata, ci si può scivolare inconsapevolmente, ma quando tutto ciò diventa ‘sistema’ e distoglie costantemente l’attenzione dalla realtà, allora vuol dire che siamo arrivati alla drammatica necessità di rivedere le priorità, innanzitutto le nostre.

Benvenuto allora  alla farfallina di Belen, al lato B di Pippa Middleton o alle labbra rifatte della Minetti (buon per loro che con tali scemenze e poca fatica riescono a guadagnarci, almeno in visibilità), ma che tutto ciò sia e rimanga un contorno (anche piccante va bene), un amusement durante la pausa caffé, che resti relegato in un mondo ‘a parte’ e che non prevalga sulla realtà.

Nella nostra recente storia passata troppe volte ci siamo fatti distogliere dal contorno e non abbiamo prestato attenzione al piatto principale, che spesso abbiamo ingoiato senza neppure renderci conto di cosa mangiavamo, insomma evitiamo di cascare nella trappola e conserviamo il nostro senso critico. Non abbiamo paura di spegnere la Televisione, o chiudere un giornale, di far sentire la nostra voce di dissenso quando è troppo. Senza pedanteria, con leggerezza e umanità impariamo a distinguere.

Rosso

Vorrei segnalare uno spettacolo che in questo momento è al Teatro dell’Elfo Puccini,  a Milano, dove rimarrà fino al 3 giugno. Lo spettacolo si intitola Rosso, arriva dagli Stati Uniti e si presenta in Italia per la prima volta. L’opera di Jhon Logan e stata prodotta nel 2009 dal teatro Donmar di Londra e poi portata a Broadway dove ha ricevuto, un anno dopo, sei Tony Award .

La storia si ispira alla biografia dell’artista  Marc Rothko (1903-1970), esponente dell’espressionismo astratto americano. Tutto lo spettacolo infatti è un dialogo serrato e immaginario dell’artista con un giovane assistente.  E’ una ricostruzione di tutto il pensiero di Rothko, ma il colloquio si pensa ambientato nel periodo in cui al pittore viene commissionato un importante ciclo pittorico murale per il ristorante 4 Season di New York .  Questa commissione gli fu veramente data nel 1958, anche se la storia andò diversamente: Rothko, dopo aver realizzato le opere, non si ritenne soddisfatto del luogo e dell’atmosfera del ristorante e  così decise di tenersele per sé.

Nello spettacolo Rothko appare burbero e difficile, attacca la pop art che rappresenta il nuovo che avanza e su questo si scontra con la visione del giovane assistente che afferma : “Lei è fuori di sé perché i barbari sono alle porte”. Attraverso tutto lo spettacolo è possibile cogliere l’essenza della sua arte, avvicinandosi alle sue macchie morbide di colore a forma di rettangoli che coprono tutte le sue grandi tele.

Oltre a questo, il dialogo è molto appassionante anche perché mette in luce il rapporto tra generazioni diverse: sul palcoscenico ci sono un attore anziano e un attore giovane, mentre nella storia l’artista anziano si confronta con l’artista giovane.

“L’arte non deve essere bella-afferma Rothko nello spettacolo- ma deve essere vera. Io esisto per fermarti il cuore, per farti pensare e non per fare delle immagini carine”.

Lo spettacolo è un inedito in Italia, da non perdere. Il testo in italiano è stato tradotto da Matteo Colombo. Rothko è interpretato dall’attore Ferdinando Bruni diretto da Francesco Frongia (per informazioni www.elfo.org).  Dopo il Teatro dell’Elfo Puccini, lo spettacolo sarà a giugno al Festival delle Colline di Torino.

“Ora viene la notte?”

Abbiamo scelto di postare ancora oggi riflessioni non nostre per commemorare un personaggio che ha insegnato molto a tutti noi. Lo facciamo tramite la voce commossa di una “addetta ai lavori”, magistrato, presidente di Corte d’Assise, che ci sprona a non abbandonarsi alla disperazione nonostante tutto!

Giovanni Falcone fu definito dai Giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, che lo commemoravano solennemente nel 2009, “un martire della causa della giustizia, un grande uomo, un giudice coraggioso”. Lui invece amava poco parlare di se stesso e, a chi gli chiedeva di riferire la sua esperienza ed i suoi stati d’animo, si limitava a rispondere di essere animato da “spirito di servizio”, affermando che “l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Altrimenti non è coraggio, è incoscienza”. Scrisse anche che “perché una società vada bene, si muova nel progresso… per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere”.

Falcone era un uomo semplice, di limpide idee, dotato di uno straordinario talento investigativo, tanto che la sua esperienza professionale, nota come “metodo Falcone”, viene tuttora utilizzata in America per le investigazioni e la lotta contro i potenti cartelli del narcotraffico internazionale e la mafia messicana.

Egli non aveva alcuna dimestichezza con l’uso del potere e le furbizie della politica, come la sua carriera e la sua stessa morte dimostrano. E sapeva bene di dover morire:  la mafia gli aveva ammazzato i collaboratori più validi e gli amici, facendogli intorno terra bruciata. Era rimasto solo, Falcone, abbandonato dalla maggior parte dei colleghi, fortemente avversato dagli organi di autogoverno dei giudici, delegittimato ed irriso da una certa stampa e dalla politica, allontanato dagli incarichi che aveva svolto con tanto sacrificio personale. E a proposito delle scorte che gli venivano assegnate, sempre più armate fino ai denti, diceva “E’ tutto teatro. Quando la mafia lo deciderà mi ammazzerà lo stesso”. 

E così fu: proprio il giorno successivo alla riunione in cui sembrava ormai finalmente decisa la sua travagliata promozione alla guida della nuova Procura Antimafia, da lui stesso ideata anni prima. Fecero esplodere Falcone, sua moglie, gli uomini della sua scorta, sprofondandoli in una enorme, emblematica voragine di distruzione.

Ma dentro quella voragine non riuscirono a seppellirne l’esempio e l’opera: dapprima la gente comune, che lo amava moltissimo, ne raccolse il testimone, poi pian piano le forze sane del paese ed, infine, seppur con lentezza, le istituzioni, diedero vita ad un movimento di reazione grazie al quale, oggi, la mafia di declinazione siciliana risulta decimata e quasi battuta. Giovanni Falcone ne sarebbe stato assai soddisfatto, convinto com’era che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”.

Già, ma il Male è forse un fenomeno semplicemente umano?

Venerdì avevo terminato una terribile settimana di lavoro, culminata con l’aver inflitto un ergastolo ad un giovane di soli 25 anni per l’efferatezza del crimine da lui compiuto allo scopo di mettersi in luce dinanzi ad organizzazioni criminose potenti e per ragioni di lucro.

Speravo in una serena pausa famigliare. Mi sono invece svegliata sabato mattina alla tragica notizia di un’esplosione, un bestiale attentato attuato dinanzi ad una scuola, che si è portato via la vita di una ragazzina di 16 anni e molte altre ne ha lasciate sfregiate, ferite, traumatizzate. Le prime incerte notizie sottolineavano la coincidenza con la ricorrenza della morte di Giovanni Falcone, il nome dell’Istituto scolastico intitolato alla moglie morta al suo fianco, il fatto che le alunne avessero da poco ottenuto un riconoscimento per il loro impegno antimafia. Queste circostanze hanno subito suggerito alla stampa, anche internazionale, una nuova dimostrazione di forza mafiosa.

Qualunque sarà la verità resta il terribile fatto che mostri senza nome, creature disumane, hanno osato l’impensabile, colpendo i nostri figli inermi, attentando al nostro stesso fragile futuro.

Come e dove trovare, allora, la forza di non cedere a quel pensiero che, dicono, persino Papa Paolo VI in punto di morte, prostrato dal barbaro assassinio del suo amico Aldo Moro, abbia espresso dolente: Può davvero essere che “adesso viene la notte”?

Chi vi è abituato e ci crede – e non sono pochi – tornerà al proprio posto con “spirito di servizio”, dominando la propria paura, spingendo con tutte le proprie forze sul “cammino verso un domani migliore”, nonostante tutto.

Paesi nuovi

Una nostra amica, Daniela, che si occupa di Politiche Giovanili-presso la Provincia di Pistoia- ha risposto al nostro Ci piace e oggi abbiamo deciso di postare la sua testimonianza.

“…anche a me piacciono i ragazzi, tutti e tanto.

E ora dopo il barbaro evento di Brindisi, vi voglio dire quanto e perché mi piacciono così tanto i ragazzi del Sud. Ne conosco a centinaia e molti di loro mi chiamano zia. Non è un fatto di parentela di sangue, ovviamente, ma è un legame altrettanto forte ed indissolubile perché fondato su principi e valori irrinunciabili e scelti per la vita.

Tutto questo passa attraverso un percorso che si chiama Albachiara, che su tutto il territorio nazionale conta sull’adesione di migliaia di ragazzi, centinaia di Scuole, di Associazioni e Pubbliche Amministrazioni. Albachiara ascolta e sostiene i ragazzi nei processi di cittadinanza attiva e di partecipazione e dal Sud, ogni anno, da 8 anni, arrivano al Campus di Albachiara centinaia e centinaia di ragazzi appassionati, forti con la voglia e la fermezza di riprendersi i loro territori, di mostrare a tutti che non hanno paura di vivere i loro valori, di essere protagonisti per costruire giorno dopo giorno, mattone su mattone PAESI NUOVI in cui il rispetto della legalità e dei diritti è sacrosanto.

Questi ragazzi sono legati alle loro tradizioni, non le rinnegano , anzi le riportano all’antico valore e cantano, e ballano e ti contagiano con la passione, quella vera che viene dal cuore per questo fanno paura, a chi sta nell’ombra e semina terrore, a chi è capace, non di vivere, ma di “campare” facendosi scudo e forza con la violenza e l’illegalità. I ragazzi del Sud hanno scelto la democrazia e la partecipazione.

….per questo e per molto altro mi piacciono – insieme a tutti gli altri  – i ragazzi del Sud”

Se l’arte parla del suo tempo come può essere ignorata?

Se l’arte parla del suo tempo come può essere ignorata? Questo mi domando ogni volta che mi si dice di non comprendere l’arte contemporanea. Certi artisti di oggi esprimono i sentimenti del mondo in modo molto più chiaro di mille parole o documenti. Unico vero segreto è quello di riuscire ad ascoltare le immagini. A questo proposito, è difficile non sentire la forza e il richiamo delle opere di Doris Salcedo.  L’artista colombiana, infatti, ormai da venti anni, presenta con i suoi lavori il grido di dolore e la memoria di tante vittime anonime delle guerre e della violenza. Chi volesse capire cosa intende per arte la Salcedo, potrebbe andare a Roma, al Maxxi, dove fino al 24 giugno è visibile la sua installazione Plegaria Muda. L’opera consiste in un centinaio di tavoli sovrapposti, dai quali nascono esili fili d’erba.  L’artista da sempre predilige per i suoi lavori  oggetti di uso quotidiano, come semplici tavoli o sedie, oggetti comuni che raccontano la storia di gente comune.

L’opera fatta per Roma è come una preghiera dedicata a tutte quelle persone  che non hanno voce per parlare della loro esistenza. Nella visione di insieme i tavoli, ripetuti come moduli, ricordano un cimitero. È come se fossero tavoli-bare, da dove però rinasce la vita: i fili d’erba simbolo di speranza. L’artista dice che l’idea di questo lavoro è nata a seguito di un viaggio nei ghetti di Los Angeles, compiuto dopo aver letto in un rapporto ufficiale che nell’arco di venti anni vi erano morti diecimila giovani, deceduti tutti di morte violenta. L’opera è anche una risposta ai 1500 giovani uccisi dall’esercito colombiano,  tra il 2003 e il 2009, senza nessuna ragione apparente.

Doris Salcedo non è nuova a questo genere di interesse e tutta la sua ricerca si è focalizzata su questi temi. Nel 2007 era presnete con un grande lavoro alla Turbine Hall della tate Modern:  Shibboleth un’installazione che consisteva in una frattura del pavimento lunga 167 metri. Anche in questo caso il lavoro voleva far affiorare il tema della discriminazione , la dura  esperienza degli immigrati del Sud del mondo che arrivano in Europa.

Un’altra sua opera gigantesca era stata creata, nel 2003, per Art21 la Biennale di Istambul dove in uno spazio vuoto tra due edifici in centro della città aveva impilato una marea di sedia di legno, per commemorare le vittime anonime, quelle che soffrono in silenzio perché emarginate e senza voce.

Le sue opere occupano vasti volumi, hanno un peso importante e quindi con quella forza prorompente riescono a rendere nello spazio e la memoria delle masse di persone scomparse e anonime cui si riferiscono.

So che l’arte non può agire in modo diretto. So che non posso salvare nessuno, ma l’arte può mantenere vive le idee, idee che possono influenzare le nostre vite” (Doris Salcedo da articolo su www.women.it di Marilde Magni, 13 marzo 2004)

Allora lasciamo che l’idee dell’arte contemporanea possano circolare il più possibile.

Lingua madre (o matrigna?)

Lo abbiamo già scritto in un post di qualche tempo fa… ci piace che al Politecnico di Milano la lingua inglese non sarà più solo materia di studio, ma diventerà lingua di insegnamento e apprendimento, questo per fare fronte alla competizione globale, per attirare nuovi studenti dall’estero (soprattutto dal «far east»), per rimanere al passo con i tempi, per essere pronti e capaci di lavorare in un contesto internazionale.

La BBC, in un recentissimo articolo del sito on line, afferma che l’inglese, essendo già la lingua universalmente utilizzata nel mondo degli affari, diventerà una sorta di nuova Koiné anche per l’educazione, la ricerca e lo studio, sottolineando però quanto ciò rappresenti un pericolo per le varie lingue, culture e tradizioni regionali. Tutti noi sappiamo bene quanto questa realtà sia molto più vicina di quanto si possa immaginare (se facciamo attenzione, infatti,  in qualche film di fantascienza di ultima generazione spesso anche gli alieni capiscono e parlano perfettamente l’inglese!) e quanto il pericolo dell’essere fagocitati da una lingua, ma soprattutto da una cultura che non ci appartiene e che sotto alcuni aspetti é lontana da noi mille miglia, sia effettivamente reale.

Nel nostro piccolo, allora, siamo corse ai ripari…

Un’amica, valida, preparata ed entusiasta insegnante di italiano (!) in una scuola internazionale, ci ha chiesto di dare una mano ai suoi studenti suggerendo loro articoli, libri, siti web, che li possano aiutare nella loro ricerca su un aspetto particolare della società o della cultura italiana. Ci ha invitate a parlare con i ragazzi e noi ci siamo sentite onorate non solo di dare una mano concreta, ma soprattutto di avere l’opportunità di far conoscere meglio la nostra cultura e le nostre tradizioni,  facendone apprezzare tutti gli aspetti positivi, di cui siamo fiere. I ragazzi che abbiamo incontrato ci sono sembrati non semplicemente interessati, ma avidi di informazioni e ricchi di domande, segno che l’Italia riesce ancora a stimolare l’interesse di molti!

Sarà necessario sfatare miti (la pizza infatti non può essere considerata «vegetale»), presentare il meglio di noi (visto che il peggio lo potranno tranquillamente leggere sulle news) e il meglio di una storia di secoli, anzi no, di millenni, sulla quale è stata costruita gran parte della tradizione occidentale, senza dimenticare che fino al Rinascimento e oltre siamo stati i più grandi esportatori di cultura e che, fra il XV e il XVII secolo, si parlava italiano in tutte le corti europee.

Ora basta, sono stata sufficientemente nostalgica, ma ritengo necessario che le nuove generazioni, soprattutto quelle «straniere» tecnologiche, inetrnaute, incredibilmente pronte e capaci abbiano la possibilità di fermarsi a capire e ad apprezzare un intero sistema formato da valori, cultura, tradizioni e lingua che é parte di ognuno di noi.

La nostra stessa esperienza di italiani all’estero ci insegna che è possibile conciliare  le due dimensioni: quella della lingua materna (materna non solo perché é quella di cui le nostre madri ci hanno nutriti, insieme al latte, fin da piccolissimi, ma soprattutto perché attraverso di essa abbiamo assimilato un’identità precisa e incancellabile) e quella della lingua acquisita, sempre più spesso l’inglese, che ci nutre in un altro modo, consentendoci di sentirci cittadini del mondo in grado di comunicare, interagire e cercare di comprendere quegli “altri”, che solo attraverso la possibilità di dialogo, non fanno più paura.