Artisti collezionisti

Magnificent-Obsessions-Peter-blake-Elephantsx1182x444Mi sono sempre domandata se collezionare è un’arte (vd https://italianintransito.com/2013/12/18/collezionare-e-unarte/). Collezioni al mondo ce ne sono tantissime e forse sono alle origini di personalità appassionate che danno un senso alla loro vita, cercando e raccogliendo oggetti del loro desiderio.imgres

Il tema si fa ancor più interessante se a collezionare sono gli artisti stessi e se ci è dato di spiare alcune delle loro collezioni. Questo è quello che ha fatto il Barbican di Londra realizzando una mostra molto divertente dal titolo: Magnificent Obsessions The Artist as Collector. La mostra itinerante è attualmente visitabile a Norwich al Sainsbury Centre for Visual Arts UEA. È un mostra che incuriosisce e in qualche moda rivela il carattere degli artisti indagati: ci aiuta a vederli sotto una luce diversa. In mostra ci sono le collezioni di Andy Warhol, Sol Lewitt, Damien Hirst, Hiroshi Sugimoto e altri.images

Andy Warhol, ad esempio, aveva una collezione che contava all’incirca 10.000 oggetti e si componeva di tutto, dall’arte folk ai mobili Deco, i gioielli di alto artigianato ma anche  di oggetti banali del quotidiano, come la serie di vasi di ceramica per biscotti visibile  in mostra . Nel catalogo della mostra si legge “in tutta la sua vita e nel suo lavoro Warhol dimostrò un’acuta sensibilità per il piacere e il desiderio di possedere rappresentando in modo perfetto la cultura consumistica del XX secolo”

Ben diverso era la collezione di Sol Lewitt. Mi ha colpito il suo interesse per le stampe giapponesi, che ha raccolto da giovane, ma anche quello  per il lavoro di altri artisti come Dan Flavin, Eva Hesse, Robert Mangold.

Bellissima la collezione di cartoline del fotografo inglese Martin Parr che per quaranta anni ha accumulato moltissimi “souvenir” di massa che potessero raccontare le aspirazioni e i desideri della massa. Nella sua collezione si trovano ad esempio, tutti gli oggetti in cui si ritraggono politici, dittatori o capi di stato.

Niente che mi abbia sorpreso quando sono entrata nella stanza dedicata alla collezione di Damien Hirst: mi sono trovata davanti ad un leone imbalsamato dentro una scatola di vetro, una serie di teschi di diverse misure e ad alcuni modelli anatomici del XIX secolo. Macabra collezione, in equilibrio sempre tra vita e morte tra permanere e cessare di essere.images

Leggendo il suo intervento nel catalogo come non essere d’accordo con lui: “ Una collezione è strettamente personale, e dice molto su chi è il collezionista , in cosa crede e di cosa ha paura, ma penso che sia inevitabile che parli di verità fondamentali e universali”.

Si, mi sono convinta, collezionare è un’arte e questo bel catalogo con scritti e interviste di Lydia Yee sarà tuo Giacomo, appassionato collezionista e ricercatore di Wunderkammer !

La vita o è stile o è errore

imagesLa nostra immagine, come italiani deriva dal nostro stile di vita. Cinema e moda l’hanno portata nel mondo, tirandosi dietro anche altri settori come l’alimentazione, il mobile e così via.

Uno stile di vita complesso che si riassume in una parola: buongusto. Si applica a come mangiamo, a come ci vestiamo, a come arrediamo ma anche a come ci approcciamo alla vita. Si suppone che noi italiani sappiamo farlo con leggerezza e appunto “buongusto”.

Ora, il problema è che oggi rappresentare questo stile nel mondo è divenuto difficile. Da un lato internet rende impossibile farlo senza essere banali: le cose di base sull’Italia sono disponibili ovunque. Dall’altro lo scenario è cambiato: elementi di quello stile che ci ha resi unici e famosi ci sono ancora, ma anche altri ce li hanno. Faccio un esempio: il nostro vino è ormai in competizione con quello di mezzo mondo e hai voglia a dire che da noi è una tradizione: sai cosa gliene importa a chi compra il vino a Rio de Janeiro? Questo si applica a tutti i nostri tradizionali punti di forza. La moda tiene, si dice: beh, insomma. Campa in mani straniere e dove è ancora italiana si dibatte nella discussione sull’opportunità di riportare tutte le produzioni in Italia. Il mobile va: certo, e il salone del mobile è ancora un grande evento, ma ormai l’unico nel suo genere, e purtroppo è anche cronicamente scollegato dal sistema moda, con cui dovrebbe interagire. Abbiamo slow food: super vero. Ma anche tante porcherie che avvelenano il nostro cibo; chi le mangia più le mozzarelle prodotte accanto alla  terra dei fuochi? E tutto il mondo sa della terra dei fuochi: a me ne hanno parlato amiche americane!

La domanda allora è: ma c’è un modo di ricostruire uno stile italiano per usarlo in modo da ri – affermarci nel mondo? Gli americani chiamano soft power l’attrattività culturale di un paese. Un potere basato sulla seduzione e non sulla potenza militare o economica.

Con lo stile italiano noi il soft power ce lo avevamo. Ma adesso come lo ricostruiamo? Come ricreiamo un soft power per ricavarci un nuovo posto nel mondo di domani?

La vita o è stile o è errore, si diceva un tempo. Speriamo lo capiscano anche i nostri politici.

Con l’arte ci si arricchisce?

Andy Wharhol, dollar sign
Andy Warhol, Dollar sign

Da meno si una settimana è arrivato a Bologna a Palazzo Fava il quadro “La ragazza con l’orecchino di Perla” opera molto famosa del pittore Jan Vermeer (il quadro è tanto più famoso dopo il romanzo di Tracy Chavalier “La ragazza dall’orecchino di perla” del 1999 dal quale successivamente fu tratto anche il film di Peter Webber).  L’occasione si è subito trasformata in un successo di pubblico, ci sono già più di 120 mila prenotazioni.

Jan Veermer
Jan Veermer, 1665-66

Mentre, però, le persone si accalcano per andare a vedere l’opera, molti esperti e storici dell’arte polemizzano e imputano al curatore Marco Goldin di essersi piegato ancora una volta alla cultura intesa come evento.  Definito inventore del business delle grandi mostre, Marco Goldin ribatte che la “bellezza è superiore a qualsiasi polemica” e con eventi del genere “ pago lo stipendio a un centinaio di persone” (da La Stampa, domenica 9 febbraio, p.19). Oltre a tutto, questa macchina espositiva attira tanti visitatori che possono scoprire così “Bologna, una città splendida e poco visitata”e infine generare tanti soldi.

Cosa è dunque che ci risuona tanto fastidioso?

Credo, caro Goldin, che la ragione di questo disagio sia un sottile senso di colpa che ci portiamo dietro: è come se fossimo ancora recidivi e convalescenti da una sbornia di trionfi, di soldi, di audience e di pubblico, e di marketing aziendale che alla fine è risultato una farsa. Il nostro paese ancora non si è riavuto da quella promessa fallita che si basava sul benessere economico fatto di sponsor e pubblicità. E quando si parla di arte in termini economici e di posti di lavoro ci sembra di sentire il suono della pubblicità e ci appaiono davanti agli occhi le televendite, i fustini, i salotti e  i materassi.

Ciò nonostante la mostra di Bologna  è un successo, tutti vogliono vedere il quadro: perchè? Perché quello di Vermeer  più che un quadro è un mito; vederlo ci illude di essere partecipi ad un evento mondano. Non a caso proprio tu affermi che un altro quadro che più di ogni altra vorresti portare in mostra sarebbe La Gioconda.  L’icona globale per eccellenza che grazie all’industria pubblicitaria ha più di ogni altra opera saturato l’immaginazione popolare.

Ecco allora che  l’ansia risale e ci viene da esclamare: non vogliamo più inseguire la fama o un sogno, è il momento di regalarci  la verità e avvicinarci alla complessità della storia dell’arte. Come spiega bene Tomaso Montanari nel suo libro Le pietre e il popolo , edito da Minimu fax, “studiare la storia non serve ad emozionarsi, ma a educarsi all’esattezza, alla presa sul reale, alla capacità di modificarlo” (p. 151).

Dovevo vivo a Ginevra, ad esempio, la verità è una lezione continua.  La verità ripetuta è che la cultura costa tanto e non si può sprecare niente. Non mancano le mostre, ma non ho mai eventi eccezionali a cui partecipare, piuttosto percorsi da eplorare e a volte nemmeno tanto facili da comprendere. In fondo una mostra è il risultato di una ricerca, che si programma per tempo e si studia da tutti i punti di vista.  A Ginevra non tutte le mostre hanno un catalogo, però si trovano sempre le fotocopie durante il percorso e anche la pubblicità è ridotta al minimo.  Niente carte patinate per gli inviti ma semplici cartoncini e molte news letter per e-mail, poi conferenze, approfondimenti e visite guidate.  I volontari  di tutte le generazioni sono ben accetti e danno un contributo importante a tenere aperte le sale e ad accoglierei visitatori.

Sarà un segno positivo, ma mi domando come mai l’unica tappa europea del tour del quadro La ragazza con l’orecchino di Perla è stata fatta in Italia?

La fine di un “perfect day”

warhol1_1000Su facebook tanti amici della mia età hanno postato la canzone che preferivano del grande Lou Reed, scomparso domenica, colonna sonora di tante nostre giovinezze, amato cantore dell’angoscia quotidiana, le scelte dipendono dalla sensibilità e soprattutto dai ricordi di ognuno.

Mi sono stupita perché tanti non hanno scelto la canzone che lo ha reso famoso nell’universo Walk on the wild side, inno alla trasgressione, la cui realizzazone risaliva a quando Reed era ancora parte dei Velvet Underground e bazzicava le amicizie della Factory newyorchese di Andy Warhol. Tanti hanno scelto testi intimisti, melodie complesse, in cui Reed con la sua voce inconfondibile e un po’ stonata raccontava piuttosto che cantare.

Definite, usando le parole del mio amico Christophe, “souvenirs dell’anima”, compagne di viaggio, soundtrack appunto di una vita le canzoni di Lou Reed ci fanno venire ancora la pelle d’oca. Icona Rock, con un successo planetario che, contrariamente ad altri della sua epoca (Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Young o David Bowie), non gli portò particolari benefici economici. Testi intimisti, voce che canta e parla allo stesso tempo, suo “marchio di fabbrica”, precursore di sonorità che diventeranno classiche solo molto tempo dopo, Lou Reed è stato “principe della notte e della angosce”. Mikal Gilmore, nel 1979 dalle pagine di Rolling Stone dice: “Lou Reed non si limita a scrivere di personaggi squallidi, permette loro di vivere  e respirare attraverso la propria voce, e dipinge colori di paesaggi familiari attraverso i loro occhi. In tale processo, egli ha creato un tipo di musica che rivela nel modo più sincero la perdita e la capacità di recupero umano il che fa di lui uno dei pochi veri eroi del Rock & Roll”.

Indimenticabile! Noi lo salutiamo così

Storie private ormai di tutti

Ilaria, una giovane e bella ragazza ventenne, arriva a Lucca nel 1403 per andare sposa al nobile Paolo Guinigi, signore della città. La cerimonia si tiene nella chiesa di San Romano e si festeggiano le nozze per tre giorni e tre notti. La moglie dà alla luce il primo figlio, Ladislao ,assicurando l’erede al casato,  ma muore durante il parto della seconda figlia, Ilaria la minore. Le cronache raccontano che la sua morte causò un grande dolore al marito, il quale decise di far realizzare un sarcofago rappresentante la moglie addormentata nel sonno eterno, con l’intento di metterlo nella cattedrale di San Martino.

L’arte può aiutare a placare il dolore? Paolo Guinigi chiamò uno dei più grandi artisti del suo tempo, lo scultore Jacopo della Quercia,  che realizzò un capolavoro della scultura quattrocentesca.

Ilaria venne rappresentata su un basamento di marmo decorato da putti e festoni. Ha gli occhi chiusi ma  sul volto non si vede la morte, la giovane infatti sembra dormire vestita con un abito elegante e raffinato. La testa è appoggiata su un cuscino e l’abito è rialzato ai piedi, dove lo scultore ha posto un piccolo cane, simbolo della fedeltà coniugale.

Quando il casato dei Guinigi cadde in disgrazia il sarcofago venne spogliato di tutti i riferimenti familiari, come lo stemma e l’iscrizione dedicatoria. Ma nessuno toccherà la figura di Ilaria, così sublimemente addormentata e bella: in breve tempo, questa figura angelica divenne quasi sacra per i lucchesi . Tutti sentivano il desiderio di vederla e sfiorare il suo corpo di marmo.

Potenza dell’arte: un’opera nata per consolare un dolore personale, venne spogliato dei suoi riferimenti storici e di appartenenza e divenne il simbolo di una città.

Così, passeggiando per Lucca pensavo al suo volto e ai tanti volti dell’arte. Pensavo ai coniugi Pandofini, al volto della Monnalisa e a quello immortalato da Andy Warhol di Marylin Monroe . E riflettevo su come l’arte può andare oltre  anche gli eventi della storia.