Chiacchiere del Lunedì

Prova mafaldeCome tutti i lunedì – ormai lo avrete capito – facciamo un gioco di  botta e risposta tra noi ( il corsivo serve, in questo gioco,  per evidenziare il punto di vista dell’altro)

Il problema della Sanità in Italia è di antica data, e gli italiani son particolarmente sensibili a questo tema, tanto che bastano alcune frasi estrapolate dal contesto per far montare la polemica e portare chi le ha pronunciate (il premier Monti) alla rettifica o alla chiarificazione dei concetti.

Il presidente del consiglio, dunque, dopo aver suscitato un vespaio ha affermato che «Dobbiamo, in una società adulta, essere capaci e avere il dovere di parlare senza che le parole diventino veicolo di equivoci e fraintendimenti, ma parlare per vedere la realtà dei problemi», e il problema della Sanità in Italia è tangibile ed allarmante e sebbene Monti abbia detto che «affermare la necessità di rendere il servizio sanitario pienamente sostenibile non ha nulla proprio nulla a che vedere con la logica della privatizzazione» tuttavia ad alcuni operatori del settore il passo verso la privatizzazione del servizio sanitario nazionale sembra l’unica svolta possibile.

Per come la vedo io, fuori dai piedi  le assicurazioni e tutto ciò che è dettato da politiche di profitto, nella sanità. Alla fine, cosa importa alle assicurazioni è garantire la salute a chi se lo può permettere. E io dico no e le parole di Monti mi fanno tremare.

Proviamo a pensare alla privatizzazione della Sanità in Italia, alla necessità per tutti i cittadini di stipulare un’assicurazione di malattia come accade in tanti paesi fra i quali la Svizzera… è chiaro che non si tratta del “toccasana” ma non pensate che tanti sprechi sarebbero evitati?

Tanti sprechi possono essere evitati anche senza l’aiuto delle assicurazioni: basta volerlo e rimettere in piedi in modo sostenibile ciò che non funziona.

È vero nella storia della nostra nazione la sanità pubblica e gratuita è sempre stata garantita, ma ciò non significa che con l’introduzione di un contributo, che dia fiato alle economie di ospedali e centri di ricerca, si infrange il sacrosanto diritto del cittadino ad essere curato.

L’italia è un esempio di grande rispetto per l’essere umano: fino ad ora tutti possono accedere all’ospedale tutti possono essere curati.

Ho provato sulla mia pelle l’efficenza del sistema assicurativo e informandomi sui dritti del malato ho anche constatato che coloro che non possono sostenere i costi di un’assicurazione, qui in Svizzera sono aiutati da finanziamenti cantonali. Non solo, anche i famosi “sans papier”, coloro che si trovano nella confederazione  senza permesso regolare, possono avere (anzi sono spinti a farlo) un’assicurazione malattia senza essere denunciati a quelle autorità che potrebbero rimpatriarli, perché tutelati dalle leggi sulla privacy.

Anche io ho provato per esperienza personale (una lunga malattia di mia madre, in dialisi) a vivere quotidianamente dentro un ospedale italiano. Quando mia madre ha cominciato il suo calvario aveva più energia e poteva viaggiare con mio padre, così ha fatto dialisi in vari ospedali all’estero. Quando tornava mi diceva sempre che il nostro ospedale di Pistoia forse era meno bello, ma le offriva una garanzia maggiore: quella di non guardare al costo, ma a ciò di cui i pazienti avevano bisogno. Non voglio dire che le cose devono rimanere così come sono ora in Italia,  chi spreca chi non sa amministrare deve lasciare il suo posto, ma aprire alle  logiche del guadagno sulla nostra pelle mi fa rabbrividire.

Monti non si è spinto ad affermare la necessità della privatizzazione, ma pensate che sarebbe davvero così impensabile magari introdurre un sistema misto tale per cui chi ha di più dà di più e chi non può viene aiutato e supportato? Non è così che dovrebbero andare le cose o è utopia?

Sì, assolutamente impensabile e inaccettabile, perché con la privatizzazione alla fine chi ci guadagnerebbe sarebbe solo chi ha di più.

La natività di Caravaggio

Caravaggio, Natività con i santi Francesco e Lorenzo,1609

Può capitare a volte di entrare in Libreria  e scegliere un libro di cui non hai mai sentito parlare, perché ti ha incuriosito il titolo o perché sei interessato al  soggetto. Non sempre hai fortuna, ma a me è andata bene l’ultima volta che lo ho fatto. Ero in Italia.  I libri li prendo in Italia perché, ahimè, tra Ginevra e Losanna non esiste una libreria italiana (solo piccolissime sezioni in librerie che dedicano invece largo spazio al tedesco e all’inglese). Il libro, edito dalla Sellerio, ha come titolo Il Caravaggio rubato. E’ scritto da Luca Scarlini.

L’opera è sotto forma di inchiesta e tratta del furto della Natività di Caravaggio, avvenuto nel 1969, nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo.  Scarlini nel libro racconta i fatti relativi al furto e dimostra come essi si leghino all’ambiente siciliano e alla mafia.  Parla anche della divisione profonda, nelle scelte di tutela e prevenzione, tra la chiesa e lo stato. Leggendo il libro si ripercorre tutta la vicenda, sottolineando come tra il 1967 e 1969 i furti di opere d’arte in Sicilia siano stati in costante  ascesa.

Nel libro si analizza la storia del furto. Nelle prime pagine si trova una bella descrizione del quadro. L’autore prosegue poi con un capitolo intitolato “Il lamento della tela”, dove prova a calarsi nei sentimenti della tela allorquando  i ladri la ritagliano dalla cornice, la arrotolano e la portano via. Non si è mai saputo chi lo abbia rubato, perché lo abbia fatto e dove si trovi adesso il grande dipinto. Nel libro si formulano diverse ipotesi sul furto, passando dalla più accreditata idea di un furto compiuto dalla mafia, a quella di  un amante dell’arte, o all’atto commesso per ottenere un riscatto.

L’autore scrive: “ la Natività di Caravaggio rapito racconta molte storie: narra del degrado di una città in uno dei suoi periodi più terribili(…) Parla però anche di un problema nazionale che negli stessi tempi divampa con una violenza mai vista prima”.

Tanto è tragica la storia della Natività quanto lo è quella della Sicilia e quanto lo è stata la vita di Caravaggio, coi suoi ultimi anni trascorsi in fuga tra Malta, Sicilia e Napoli.

Il mugnaio, la luce perpetua e le logiche dell’economia

Vi raccontiamo oggi una bizzarra vicenda tutta svizzera, il cui inizio risale a 655 anni fa.

La vicenda si svolge a Mollis, un ridente villaggio del Canton Glarona. Qui nel 1350 un mugnaio, tale Konrad Müller, commise un omicidio. Il colpevole si salvò per il rotto della cuffia facendo voto, a mo’ di espiazione, di alimentare in eterno una luce perpetua che donò alla chiesa locale. Egli impegnò se stesso e i futuri proprietari dei suoi averi, a prendersi cura di questa fiammella votiva e a provvedere ad essa bruciando l’olio proveniente dai suoi noci. Dal 1350 dunque nella chiesa di Mollis arde la luce perpetua a sempiterno ricordo del pentimento del mugnaio assassino…

Oggi le cose sono un po’ cambiate… Innanzitutto di noci non ce ne sono più, inoltre il nuovo proprietario di quello che il fu il fondo di Müller non è assolutamente d’accordo nel versare la somma annua di 70 franchi a compensazione delle spese di manutenzione della luce perpetua nella cappella di Mollis. L’attuale proprietario del luogo in cui erano piantati i noci infatti si rifiuta di sottostare all’imposizione siglata nell’atto notarile risalente al 1350, tanto più che non si tratta affatto dell’espiazione dei suoi peccati!

Per ricomporre il litigio fra proprietario del fondo e chiesa locale il parroco, documenti d’epoca alla mano, ha fatto ricorso presso il tribunale cantonale.

Come andrà a finire questa antica vicenda lo deciderà un moderno tribunale, ma voi cosa avreste fatto? Avreste continuato ad alimentare un’antica tradizione o anche voi, come vorrebbe il nuovo proprietario, avreste spento la luce perpetua in nome di moderne logiche economiche?

Cara Almea

Italianintransito è impegnata a sostenere un centro caritatevole che offe sostegno, in maniera concreta e efficace, a migliaia di persone poverissime che vivono a Addis Ababa in Etiopia.  Si chiama Centro san Giuseppe.

Perchè il Centro Sa Giuseppe ci rappresenta come italianintransito?

Perché chi gestisce questo centro è una signora, Almea Bordino, per metà italiana e per metà eritrea. Ha passato la propria vita in viaggio un po’ come noi. Almea si è trasferita da Asmara ad Addis quando era una ragazzina e lì ha costruito la sua vita, mai dimenticando il forte retaggio italiano della sua famiglia di origine. In lei convive un misto di culture. Lo stato italiano (i suoi genitori sono di origine italiana per via del nostro passato coloniale nella regione) le ha conferito la cittadinanza, ma lei rimane attaccata all’Etiopia per cultura e per radici: così parla italiano e amarico.

Ebbene questa donna  è un’imprenditrice, ha una sua attività che conduce con grande intelligenza e ha una famiglia molto bella composta da due figli. Dopo aver dedicato tanta energia alla cura della propria casa e al lavoro, ha pensato di fare qualcosa di più e dedicare metà del suo tempo agli altri. Un giorno, mi ha spiegato, ha sentito forte il desiderio di dare da mangiare a tutte quelle persone che chiedevano disperati un aiuto in mezzo alla strada. Lei è una ristoratrice e così ha deciso  di partire costruendo un piccolo luogo dove le persone potessero trovare un pasto caldo, con l’aiuto della parrocchia cattolica italiana di Addis. E’ partita  in modo semplice, ma siccome è una donna con forte doti di organizzatrice è riuscita a far crescere il centro e così è passata ad aiutare migliaia di poveri non solo con il cibo ma con mille altre attività. Tanto per riassumerle diciamo che paga le rette scolastiche, le uniformi e i libri a tantissimi bambini e bambine;  dà assistenza ai malati pagando loro le cure negli ospedali della città; ha aperto  una serie di dormitori per accudire gli anziani che altrimenti dormirebbero sull’asfalto delle strade (vi dormono anche tante  madri single poverissime).

Chi conosce Almea sa che è una donna molto forte, per niente arrendevole e prona a nessun compromesso. Ha dovuto combattere molto per arrivare a fare ciò che ha fatto; le difficoltà e le delusioni non le sono mancate.

Oggi il Centro è un luogo ove un povero che non ha niente viene ricevuto, ascoltato, vestito, ha di che sfamarsi e può curarsi. In questo luogo, l’ho visto io con i miei occhi, in più di un’occasione, ci si prende cura delle persone più povere:  così povere che noi, con tutti i nostri studi e col nostro incessante viaggiare, nemmeno ci immaginiamo. Se solo per un momento provassimo a metterci nei loro panni, proveremmo terrore.

Allora, cara Almea, a te che hai dovuto sopportare l’emarginazione subita da chi si impegna davvero per gli altri, a te che vedi ogni giorno una dimensione di vita terribile, testimoniando il dolore infinito degli ultimi, noi teniamo a far sapere che ti sosteniamo e che siamo dalla tua parte in questa folle e meravigliosa corsa a consolare chi soffre.

Chi volesse in qualche modo unirsi a noi, tramite un’adozione a distanza o sostenendo il centro in qualsiasi altro modo, può contattarci.

Pronti a ballare?

Vogliamo continuare questa settimana che si preannuncia triste e grigia mettendo un po’ di musica? Vi dispiace se ci dedichiamo a quella un po’ demenziale, tipo il motivetto che ti entra in testa e non ti abbandona più?

Allora parliamo della star del momento che canta la hit del momento… Mi riferisco a Psy, artsita coreano, che con il suo tormentone Gangnam Style ci sta facendo impazzire.

Affrontiamo però l’argomento seriamente, inannazitutto parlando del nuovo pop coreano, il cosiddetto K-pop (abbreviazione per Korean pop) che sta all’origine del Gangnam Style. Questo tipo di musica nasce alla fine del secolo scorso, al termine degli infiniti conflitti che avevano visto la Corea del Sud protagonista di indicibili sofferenze, quando questa eccezionale nazione decide di reinventarsi. Il nuovo livello di vita rende i coreani più propensi al divertimento. Nascono dunque, in un tessuto sociale in fermento,  a livello artistico, nuovi modi di esprimersi alcuni dei quali si rifanno alla tradizione occidentale, che però viene completamente reinterpretata in chiave neo-orientale, ovviamente non tutti allo stesso livello quanto a originalità e creatività.

Sulla scia delle boys bands occidentali nascono infatti boys bands coreane composte da innumerevoli cantanti e ballerini, funanbolici e istrionici.

Il magazine americano Rolling stone dà la seguente definizione di K pop  «il K pop è una miscela di musica occidentale alla moda e pop giapponese ad alta energia, che attacca le orecchie di chi ascolta con ganci ripetuti, si eprime a volte in lingua inglese, fondendo canto e rap ed enfatizzando le performance visive».

Torniamo a Psy, non più giovanissimo, conosciuto fino a questa estate come cantante, rapper, ballerino e produttore solo nell’ambiente coreano e definito oggi dal segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon «un uomo che con la sua energia può aiutare ad uscire dalla palude della crisi mondiale». Mica male no? Il suo video su you tube è naturalmente virale ed é di oggi la notizia che è stato cliccato 805 milioni di volte. Da luglio, quando è uscito il suo motivetto, è stato ballato non solo in tutto il mondo, ma da tutto il mondo (persino il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, durante la sua campagna elettorale promise che lo avrebbe ballato privatamente a Michelle una volta rieletto alla Casa Bianca). Non si contano i flash mob che l’hanno utilizzata come colonna sonora!

Noi ve lo vogliamo mostrare ballato da un danzatore di eccezione, che con questo video ancora una volta ha sfidato il governo del suo paese, per sottolineare quanto sia importante la libertà dell’arte e dell’artista.

Vi presentiamo dunque Ai Weiwei che danza Gangnam Style di Psy. Godetevelo!

Chiacchiere del lunedì

… metti una sera a cena con delitto

Grazie, grazie a tutti coloro che hanno partecipato e contribuito con allegria alla cena con delitto organizzata sabato scorso. La cena è stata per noi una doppia occasione, incontrare tanti italiani che abitano come noi in Svizzera e realizzare una raccolta fondi per sostenere il Centro San Giuseppe di Addis Abeba in Etiopia. Il centro San Giuseppe è un luogo per assistere e sostenere tante famiglie povere di Addis Abeba. Il Centro garantisce fra le tante cose un supporto scolastico ai bambini, un’assistenza sanitaria e avviamento al lavoro per le fasce più povere della città.

La serata è stata per me ed Enrica la prima occasione di un incontro fuori dalla rete e mi sono convinta che se il blog è un bellissima opportunità di scambio ancor più  bello è parlarsi e incontrarsi  di persona.

L’obiettivo è stato raggiunto… tanti vecchi e nuovi amici riuniti insieme hanno reso questo evento indimenticabile! 

Il pretesto del delitto tratto da una storia di Agatha Christie ci ha fatto divertire. Abbiamo visto persone disposte a giocare e pronte e fare di tutto per stare bene e far divertire gli altri: così rispettosissimi italiani si sono trasformati in palme, barche, vicari, modelle, miliardari in carrozzina e tanti altri personaggi disegnati dalla penna della giallista. Abbiamo visto morti improvvisati che “galleggiavano all’orizzonte” sui tavoli e scanzonati ragazzi a pesca o in bicicletta così in un’atmosfera esotica e fatta di colpi di scena abbiamo trascorso una serata memorabile.

La serata è trascorsa in un attimo, anzi quasi troppo velocemente.  E per la bella atmosfera che si è creata vi vogliamo ancora una volta ringraziare di cuore, tutti! Vi faremo avere notizie dal Centro San Giuseppe, e chi di voi voglia collaborare ancora al benessere di bambini e mamme di Addis Abeba ci può contattare, vi daremo tutti gli estremi per continuare questa bella cooperazione!

 

Chi l’ha visto?

La Tate Gallery, a Londra, ha inaugurato una mostra  virtuale, intitolata Gallery of Lost Art, che cerca di ricostruire la storia delle maggiori opere del XX secolo andate perdute, rubate o distrutte. L’idea è quella di costruire un piccolo archivio  visuale e storico di queste opere. L’archivio è un lavoro aperto e in divenire e quindi ogni settimana si arricchisce di dati e nuove opere.  Jennifer Mundy, la curatrice di questo progetto, ha sottolineato come questa mostra si volesse focalizzare sulle opere che non si possono più vedere ma che hanno avuto un peso importante nello sviluppo dell’arte.  E’ molto interessante da guardare:  potrete partire dalla lista degli artisti presenti  o da quella che elenca le cause per cui le opere si sono perse. Troverete le opere perse di Keith Haring, Calder o Bacon e scoprirete perché e quando  il Rockfeller Center distrusse un affresco di Diego Rivera.

Vedrete anche per esempio, collocate su una scrivania, le cinque opere che furono rubate nel 2010 al Musee D’Art de  la Ville di Parigi (opere di Modigliani, Braque, Leger, Picasso e Matisse) e molte altre notizie interessanti.

Fate la ricerca voi stessi è un po’ come un gioco: www.galleryoflostart.com

Il rumore del silenzio

Fantastico ossimoro che per me esprime la difficoltà, ma anche la necessità del restare soli.

Mai come in questo periodo della mia vita percepisco il rumore del silenzio e ne rimango spaventata. Anche questa sera  da sola davanti al computer è il silenzio che mi accompagna.

La mia bambina più piccola, che piccola non é più, fa i compiti e rincorre i suoi sogni ancora bambini.

Il figlio di mezzo, quello che è ancora qui con me (per poco, toccherà anche a lui andare via ed iniziare la sua vita) è a un concerto, dove spero si possa divertire.

Il più grande studia lontano, ed è lontano fisicamente, ma é accanto a me nel cuore…

In questo muto frastuono silenzioso che mi avvolge mi vengono in mente le parole di Kahlil Gibran mentre un groppo mi sale in gola :

I tuoi figli non sono figli tuoi, sono i figli e le figlie della vita stessa.

Tu li metti al mondo, ma non li crei.

Sono vicino a te, ma non sono cosa tua.

Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee.

Tu puoi dare dimora al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire dove a te non è dato entrare neppure con il sogno.

Puoi cercare di somigliare a loro, ma non volere che essi assomiglino a te, perché la loro vita non ritorna indietro e non si ferma a ieri.

Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.

Ma quanto può essere difficile acccettarlo?

Dedicato a tutti coloro che si sentono un po’ soli, che fino a ieri dovevano affrontare il rumore di una folla, ma che come me sanno quanto è necessario lasciare andare i figli e si consolano attaccandosi… al barattolo della Nutella!

Beh, l’accompagnamento musicale è scontato, almeno è un pezzo d’epoca

Incontrare l’arte quando meno te lo aspetti

Se c’è una persona a cui piace sorprendersi nell’incontrare l’arte nei posti più insoliti quella sono io . Mi entusiasma  inciampare nell’arte quando meno me lo aspetto.  Tutti gli esperimenti fatti in arte, per portarla in luoghi altri da quelli a lei ufficialmente consacrati, mi sembrano sforzi ben meritevoli di lode.  Ricordo quando, nel 1986, il critico Jan Hoet presentò Chambres d’Amis a Gand (Belgio). La mostra era nata invitando  cinquanta artisti a realizzare le loro installazioni non nel museo, ma dentro le case di chi si era disponibile ad accoglierli. L’idea era nuova  e stimolante, ben diversa dalla mostra Chambres presentata in questo momento  al Mamco di Ginevra,  dove un gruppo di artisti è stato invitato a presentare delle installazioni in forma di camere:  un concetto ben più triste di quello belga, anche se sono proprio belle  quelle di Silvie Fleuiry e di George Segal.

Ebbene,  l’altro giorno camminando per la città di Ginevra mi sono imbattuta senza saperlo in un angolo delle sorprese. Come se l’arte mi  aspettasse senza che io lo sapessi. Questo angolo è un luogo piuttosto anonimo nei pressi di Plainpalais, esattamente nel Rond Point de Planpalais, un luogo conosciuto più per la fermata del tram che per l’arte. Lì, infatti, mi sono trovata davanti a dei viaggiatori distratti,  sparsi nella piazza, ma fatti di bronzo, a grandezza naturale: ho scoperto che sono opera di Gerald Ducimetiere. La targhetta diceva: Alter Ego 1905-1982-3000.

Lì, vicino alle sculture, ho scoperto una piccola stanza a vetri, che prima doveva essere una sala di attesa, o una  biglietteria, e che adesso è divenuta luogo per esposizioni d’arte. In questi giorni vi si scorge un’installazione dal titolo Europe The Final Countdown,  realizzata dall’artista inglese Scott King. Questo lavoro vuole far riflettere sull’opportunità per l’Europa (in seguito anche al premio nobel per la pace che ha ottenuto quest’anno) di dar vita a un Eureopean Museum of Unity (EMU). Lo spazio è gestito da un centro d’arte – Zabrinskie Point – che ha aperto nel 2011 e vuole diventare un luogo per performance, esposizioni e per l’incontro della cittadinanza con l’arte. Il tutto sempre realizzando progetti internazionali legati anche a questioni sociali.

Un luogo che incuriosisce e a cui mi sono già affezionata. Lo guarderò ogni volta che passo di lì, per scoprire cosa contiene.

Prova d’autore

Philip Roth, 80 anni il prossimo marzo, ha pubblicamente annunciato, attraverso il magazine francese Les in Rocks di non voler più scrivere.

Sul suo computer, infatti, ha digitato una frase molto chiara e definitiva: “la lotta con la scrittura è finita”.

Roth autore di capolavori indimenticabili quali La macchia umana, Pastorale americana, Lamento di Portnoy, Nemesis e tanti tanti altri, segna cosi il suo addio alla scrittura che per lui è stata madre e matrigna… E anche facendo questo ci da una lezione di preziosa di stile ed umiltà.

Innanzitutto Roth ha un considerazione molto particolare della sua opera, egli infatti afferma di aver fatto del proprio meglio con il materiale umano e intellettuale a sua disposizione, non rinnega nulla, non ha rimpianti, afferma solo che il tempo della scrittura per lui à terminato, l’età soprattutto è ciò che lo ferma, l’età e la convinzione che non la scrittura, bensì la lettura sia ormai morta.

Nell’intervista rilasciata al magazine francese egli afferma che la scrittura è sempre stata un qualcosa di estremamente difficile per lui. Egli ha sempre avuto difficoltà a trovare soggetti e situazioni da comunicare. Ora a quasi ottant’anni Roth dice di non voler più leggere, scrivere e nemmeno parlare di romanzi, ai quali ha consacrato tutta la propria esistenza. Non prova più quel fanatismo giovanile che lo spingeva a non poter fare altro che scrivere. La sola idea di dover ancora una volta affrontare questa prova lo atterrisce. Oggi l’autore si sente privo di quella forza creatrice che ti spinge a scrivere ma che ti consuma interiormente. Scrivere significa essere sempre frustrato nelle proprie intenzioni di artista; si passa il tempo a scrivere le parole sbagliate, le frasi sbagliate, le storie sbagliate. Lo scrittore si sbaglia senza sosta e vive in uno stato di frustrazione perpetua. Si passa il tempo a dirsi questo non va, bisogna ricominciare.

Roth è stanco di tutto questo lavoro e per la scrittura non prove alcuna melanconia, si è dedicato, come egli stesso afferma, a un’attività che più si addice ad una persona così anziana. Sta sistemando, infatti, il suo archivio personale per affidarlo poi un autore di sua fiducia affinché ne faccia buon uso.

Non è che Roth non creda più nella scrittura, egli crede piuttosto di non poter comunicare più nulla al suo pubblico, di aver detto tutto ciò che poteva, non crede nella morte del romanzo ma nella morte della lettura, uccisa dallo schermo del cinema, della televisione e ultimamente del computer. Augura infine ai nuovi novellisti, come J. Franzen, di cui ammira l’opera, grande fortuna, ma soprattutto il coraggio di continuare nonostante tutto.

Con questo si chiude l’epopea di un mito del romanzo mondiale, con ciò Roth ha scritto già l’epitaffio sulla sua vita e la sua opera, sconfitto forse da un mondo troppo veloce, egli, cantore di un’intera epoca e di un’intera umanità, ha deciso di far tacere per sempre la sua voce.