Dalla mia mamma ho imparato a non sprecare la vita con pensieri negativi.
Oltre a lei, come guida, ho sempre in mente un modello di donna che ho scoperto in un romanzo degli anni Cinquanta, la cui protagonista in verità non è una madre ma una zia a tempo pieno: si chiama Zia Mame (romanzo scritto da Patrick Dennis). Si tratta di una donna eccentrica, che vede le cose in modo diverso dagli altri, travolgente, piena di forza e sempre pronta ad avventurarsi in cose nuove, anche quando la sorte le è avversa.
Da non dimenticare: è necessario imparare a salvaguardare la nostra indipendenza e vivere apprendendo a guardare le cose da angolazioni diverse, un po’ come facevano un secolo fa i cubisti con gli oggetti. Chiaro?
Ricercatori dell’Università di Bristol hanno pubblicato su Plos one (giornale di ricerca scientifica e medica) le conclusioni alle quali sono giunti cercando di dare fondamenta scientifiche alla critica letteraria. Infatti eseguendo un lungo lavoro su migliaia di libri (inglesi e tedeschi) pubblicati nel ‘900 hanno stabilito senza ombra di dubbio che il clima economico di un’epoca si riflette nella narrativa e nella poesia che produce, tale risultato può aiutare a convalidare la tesi che la letteratura sia un buon indicatore della psicologia umana e del benessere. Naturalmente la tesi è vecchia come il mondo. Tutti i critici letterari hanno pensato almeno una volta che scrittori, poeti e romanzieri fossero lo specchio fedele dei sentimenti che si sviluppavano nella loro epoca, ma per la prima volta i ricercatori inglesi hanno dato a questa affermazione una base strettamente scientifica. Infatti essi hanno creato un algoritmo in grado di misurare la frequenza delle parole usate per esprimere infelicità e sofferenza, il quale è stato utilizzato per la scansione di milioni di libri digitalizzati pubblicati tra il 1929 e il 2000. Con i risultati, il team è stato in grado di ricavare il cosiddetto “indice di miseria letterario”! Successivamente tale indice è stato comparato con con “l’indice di miseria economica” (ottenuto aggiungendo il tasso di disoccupazione al tasso di inflazione) ed il gioco è fatto!
L’algoritmo creato cercava la frequenza di parole nei testi che si riferissero all'”umore”, suddivise in sei grandi categorie: rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza, sorpresa. Alcuni periodi del ‘900, ad esempio la decade degli anni ’80, sono stati caratterizzati da questa “miseria letteraria”, mentre altri da una gioia relativa, ma sembra che per ogni periodo, come afferma il professor Bentley a capo della ricerca, l’andamento si modelli sulla storia economica dell’Occidente, ma spostato in avanti di un decennio. “L’effetto decade” rappresenta probabilmente il divario dovuto alla rielaborazione dei ricordi dell’infanzia e della giovane età fatta dagli scrittori una volta divenuti adulti. Per il ventesimo secolo i ricercatori si spingono ad affermare, infatti, che i cambiamenti economici hanno iniziato a fare parte attiva del bagaglio di conoscenze ed esperienze degli autori, determinando il “mood” dei loro scritti a un decennio di distanza. Addiriittura essi si spingono oltre affermando che più cicli letterari verranno individuati più, analizzando gli andamenti passati, si troveranno chiavi per comprendere i flussi culturali del futuro…
Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006 – con la motivazione «che con la sua ricerca dell’anima melanconica della sua città (Istanbul) ha scoperto nuovi simboli per rappresentare lo scontro e il legame fra le diverse culture» – ha inaugurato il 28 aprile scorso il suoMuseo dell’Innocenza. Un progetto accarezzato per 15 anni, tanto il tempo necessario alla sua realizzazione, e che finalmente ha visto la luce.
Museo dell’Innocenza è anche il suo ultimo romanzo pubblicato da Einaudi nel 2009 e l’uno e l’altro sono intimamente legati e interconnessi.
Come lo stesso autore ha affermato in un intervista, libro e museo sono stati concepiti assieme. Nel Museo «Ci sono tutti gli oggetti descritti nel testo. Qui i lettori possono venire con il volume in mano, oppure consultarlo su questi banchi in tutte le lingue. So bene che dopo un po’ di tempo ognuno finisce per dimenticare la trama dei libri. Però qui si può ricordare il romanzo. E anche ricostruire la storia della città» (Tratto da Kataweb)
Il museo conta 83 vetrine, tante quanti sono i capitoli del suo romanzo, che narra di una storia d’amore lunga una vita fra Kemal ricco borghese e una sua lontana parente la bella, ma povera Fusun «dalle braccia color del miele», che fa letteralmente perdere la testa al protagonista. Nel museo trovano posto migliaia di oggetti che Pamuk ha trovato in mercatini dell’usato e rigattieri che narrano la storia di un’intera epoca (gli anni in cui nasce e cresce l’amore dei protagonisti). Tutto ciò che non è stato trovato in vendita è stato pazientemente ricostruito grazie all’opera di capaci artigiani.
Ma, viene da chiedersi immediatamente, tutto questo perché ?
L’autore lo spiega candidamente, quella fra i due protagonisti del romanzo/museo non è una semplice storia di amore è la storia di una intera città e di un’intera epoca, un documento su una Istanbul che non esiste più e che continua a vivere nel cuore dello scrittore. Ogni singolo oggetto che fa parte della collezione del museo rappresenta tangibilmente un momento della vita dei protagonisti, che sebbene vivano e agiscano solo sulla carta fanno rivivere atmosfere che senza la presenza visibile e reale di qualcosa che le ricordi sarebbero irrimediabilmente perdute.
L’ambizione di Pamuk è quella di ricreare nel visitatore le sensazioni vissute leggendo il libro una sorta di percorso letterario in cui tutti i sensi vengono coinvolti.
Una sorta di nuova performance artistica o semplicemente la realizzazione delle stravaganze di un letterato?
Credo che chi ha la fortuna di fare un viaggio a Istanbul possa prendersi un attimo di pausa percorrendo le sale di questo museo situato nella città antica, nel quartiere di Cukurcuma per rivivere un’intensa storia d’amore e per imparare ad amare come Pamuk l’anima divisa di una città la cui vocazione occidentale contrasta con la sua anima orientale!
Letto e dimenticato. Già… lo avevo letto, con fastidio, e dimenticato in un cassetto della memoria, volutamente.
Quando mi trovai per le mani Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro, ero ancora guidata dall’impossibilità di lasciare un libro a metà (poi per fortuna mi è venuto in aiuto Pennac con il suo Come un romanzo) e dunque mi trascinai penosamente fino alla fine del volume, soffrendo, profondamente, con i protagonisti di questa ingiusta, intensa e visionaria storia d’amore. Era il 2006 e presa da mille altre cose non ero riuscita ad apprezzare questo duro e improbabile romanzo. A metà fra fantascienza e feuilleton.
Ricordo che non potevo rassegnarmi al tragico destino dei protagonisti, ma soprattutto non potevo rassegnarmi al loro immobilismo, al fatto che neanche per una volta, nell’intero libro, nessuno di loro aveva pensato solo per un momento a ribellarsi con risolutezza al fato.
Ringrazio ora di aver avuto l’occasione di leggere questo romanzo, che mi è ritornato in mente dopo averne visto la versione cinematografica, superbamente interpretata da Carey Mulligan (splendida protagonista di An education), Andrew Garfield (l’Eduardo di Social Network) e Keira Knightley.
In un mondo parallelo al nostro, in un’epoca che combacia quasi con la nostra, si dipana la storia dei tre personaggi, Katy, Tommy e Ruth, legati fra loro da profonda amicizia e amore. I ragazzi sono sospesi per tutta la durata del romanzo in un presente di cui non conoscono e non capiscono le regole.
La fanciullezza viene passata a Hailsham, un collegio nella campagna inglese, in un clima ovattato, lontano persino dagli echi della “civiltà”, dove i piccoli sono accuditi e lasciati volutamente nell’incertezza sulle loro origini, ma allevati nella convinzione di essere in qualche modo speciali. Qui i bambini sono invitati a coltivare la loro creatività attraverso l’arte, la letteratura, la musica e solo alla fine del racconto si scoprirà che tutto ciò fa parte di un esperimento per provare che anche i cloni, ciò che questi bambini sono in realtà, sono forse più umani degli umani. Ad Hailsham, infatti, i bambini (e il lettore) iniziano lentamente a comprendere il tragico destino al quale sono chiamati: divenire “parti di ricambio” per un’umanità malata.
Nel secondo capitolo i ragazzi, ormai cresciuti passano gli anni del compimento degli studi, della definizione della personalità, della consapevolezza del tempo che rimane loro ai Cottages, dove godono di una certa libertà. Il terzo capitolo racconta l’età della fine, del compimento dello scopo per il quale i cloni sono stati creati.
La storia è condotta in modo delicatamente orientale, senza contrasti o atti di ribellione al destino, cosa che nel lettore (abituato più spesso ad un agire eroico) lascia spazio allo sconcerto, fatta di atmosfere attutite e lievi. Si è condotti per gradi a scoprire la devastante verità e quasi non la si vuole scoprire tanto è agghiacciante e scioccante.
Così Ishiguro ci lascia il suo messaggio che non credo sia una riflessione morale sulla bontà o meno della creazione di cloni come parti di ricambio e neppure sulla bontà o meno di una società che accetta questa pratica. Credo piuttosto che il desiderio dell’autore sia quello di comunicarci che, alla fine, solo l’arte e l’amore restano all’uomo per dichiararsi tale, al di là di ogni volontà di cancellazione e annullamento.
Non è la prima volta che Ishiguro da prova della sua maestria nel raccontare con suprema bravura il viaggio interiore dei suoi personaggi (vorrei solo ricordare un altro suo capolavoro: Quel che resta del giorno). Detto ciò, fra le mille sensazioni che questo libro singolare lascia, si preferirebbe che questi cloni, tanto gentili, indifesi e inoffensivi fossero fornitori di organi senza anima… tutto sarebbe più accettabile. Da non perdere.
Pensando alla lingua come esperimento, come invenzione, vorremmo consigliare un romanzo di un autore svizzero Pedro Lenz con il suo ultimo libro In porta c’ero io(Gabriele Capelli Editore, Mendrisio) vincitore del PremioSchiller 2011.
Il libro, cosa rara e inusuale, è stato scritto in svizzero tedesco, una lingua che non viene normalmente usata per scrivere, ma è usata solo come lingua parlata.
L’autore in un’intervista ha spiegato bene che questa scelta dell’uso del dialetto non nasce per voler appoggiare posizioni isolazioniste della Svizzera, ma perché con esso sentiva di cogliere la lingua nella sua accezione più viva e quotidiana.
La storia, ambientata negli anni Ottanta, racconta di un ex tossicodipendente che ritorna nel proprio paese vicno a Berna dopo aver scontato un anno nel carcere di Witzwil.
Ponete il caso, che siate una di quelle persone che per quanto amino il rigore, il metodo e la concretezza, non disdegnino l’attimo di follia. Quello che permette di fare il salto, con l’allegra e meravigliosa consapevolezza che “si, ce la faccio”, e ti rendi conto, che in fondo, era proprio così.
Ponete il caso, che per motivi magari non proprio totalmente dipendenti da voi, siate costretti a cambiare il ritmo del vostro tempo, e a ritrovarvi di colpo ad avere un po’ più di tempo, o semplicemente a poterlo ripartire in modo diverso.
Tempo – tic, tac – non piu’ il tempo regalato al tram, al semaforo, alle code, alle mense, ma il tempo salvato per regalare alla mente lo spazio per fare collegamenti, bilanci e riflessioni.
Questi sono alcuni degli ingredienti che combinati, amalgamati e mescolati nelle giuste dosi, sono la migliore preparazione di base per chi è “in transito”.
E a proposito di collegamenti e riflessioni, così ad esempio, il giovane giallista e chimico Marco Malvaldi ci lascia una sua bellissima riflessione sull’analogia tra letteratura e chimica, tra il mestiere di scrittore e quello di chimico. Forse potevamo averla già dedotta dall’insigne esempio di Primo Levi, ma sicuramente con questa sua riflessione, Malvaldi ci fa venire voglia di leggere i suoi gialli.
Ci si rende conto, che per quanto dei mondi possano sembrare lontani, transitare dall’uno all’altro puo’ essere un attimo; e soprattutto, si rimane ammirati da come, in quello spazio che ci porta da un approdo ad un altro, saperi ed emozioni si possano combinare tanto inaspettatamente quanto pregevolmente.
Continuando a riflettere sulle combinazioni, dall’approdo della chimica-fisica si transita verso quello della gastronomia, per arrivare alla formulazione di quella Gastronomia Molecolare – solo apparentemente bizzarra combinazione – che tanto ha acchiappato scienziati e chef, da farne addirittura una disciplina.
E così, combinazioni felici possono essere il risultato di transiti arditi ma talvolta necessari, e che siano tra terre o tra saperi, poco importa. È certo, che essi sono compiuti da chi, per natura o per contingenza, accetta di guardare ad approdi diversi, permettendo al tempo di cambiare il suo ritmo e ciò che ne consegue.
Per tutto il 2012 Ginevra celebra il trecentesimo anniversario della nascita di Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712- Ermenonville, presso Senlis 1778). Il celebre filosofo pedagogista (di cui si ricorda tra gli altri suoi libri il Contratto sociale e il trattato di pedagogia Emilio o dell’educazione) .
Verranno organizzati per l’occasione, passeggiate letterarie in città, dibattiti politici, una festa in costume dell’epoca di Rousseau, uno spettacolo multimediale intitolato L’Ombre des Lumieres, opere liriche e teatrali di grande suggestione tra cui uno spettacolo sulla sua vita che il Grand Theatre de Geneva presenterà il prossimo settembre.
Per l’occasione la città di Ginevra restaurerà anche la statua del filosofo creata nel 1835 dallo scultore neoclassico James Pradier collocata sulla piccola isola di Rousseau sul fiume Rodano.