Danzando al museo

La notizia è la seguente: da qualche tempo a New York al Metropolitan Museum of Art è possibile prendere lezioni di danza o di yoga all’interno delle sale dei musei, davanti ai più grandi capolavori d’arte che qui sono conservati.

Una nuova follia collettiva o un modo diverso di spendere tempo al museo?

L’ideatrice Monica Bill Barnes & Company ha reimmaginato un tour del Metropolitan Museum, creando un modo “fisico” per relazionare i visitatori alle opere d’arte. I partecipanti si aggiungono alla compagnia di danza la mattina presto, prima dell’apertura giornaliera, e tutti sono invitati a seguire  i membri della compagnia nelle coreografie e negli esercizi di fronte alle opere d’arte…

In parte tour delle gallerie, in parte performance di danza, in parte vigorosa sessione di allenamento The Museum Workout è un tour che lascia i partecipanti/visitatori  “accaldati e ispirati”, nella convinzione che con un po’ di buona musica e con un po’ di movimento le cellule grigie del cervello si attivino per meglio comprendere e gustare la bellezza delle opere d’arte….

Da provare!

Design for Difference

CollezioneL’entusiasmo dei giovani è sempre disarmante. I giovani riescono a vedere le cose con quegli occhi “nuovi” che noi un po’ più agée, troppo spesso cinici e di poche speranze, abbiamo dimenticato in chissà quale svolta delle nostre vite. Anche la soluzione dei problemi, approcciati con la fantasia e l’inventività dei giovani, risulta spesso geniale, perché loro è il mondo nuovo e dovrebbe essere loro il compito di renderlo migliore.

Riflessioni queste che mi sono venute in mente considerando il lavoro di una giovanissima stilista che ha imperniato tutta la sua tesi di laurea presso la Parson School of Design di New York sul dramma dei rifugiati siriani.

Naturalmente il progetto era quello di disegnare una collezione di abiti. Ma, invece di focalizzarsi su mise da sera o da giorno, sull’algida eleganza o il prêt à porter, Angela Luna, questo il nome della studentessa, ha inventato un’intera collezione che vuole in qualche modo lenire le pene di tutti coloro che sono stati costretti ad abbandonare ciò che avevano per scappare dalla violenza nella propria terra. Ogni capo della collezione infatti può essere usato in un modo alternativo e decisamente utile, mantelle che diventano tende, giacconi che diventano salvagente e che donano immediata visibilità, marsupi resistenti e galleggianti per il trasporto dei neonati ecc. ecc. Scopo principale della collezione è quello di cercare effettivamente soluzioni alla tragedia e non capitalizzarla. A tal proposito il progetto prevede la vendita della collezione, studiata e realizzata con tecnologie e materiali d’avanguardia, a quei brand che producono materiale sportivo altamente tecnologico e riproporre il medesimo design, sebbene semplificato e potenziato, gratuitamente, alla marea di persone pronte alla partenza.

E qui c’è tutto: l’entusiasmo, la genialità e, sì certo, anche una buona dose di ingenuità, ma anche energia e voglia di fare. “Design for difference” questo è il nome e l’incitamento di Luna, per tutti coloro che non possono rimanere indifferenti al dolore e alla sofferenza.

 

Mecenati precursori della storia dell’arte

Gertrude Vanderbit Whitney
Gertrude Vanderbit Whitney

I mecenati sono imprevedibili. In questi giorni si dibatte a Ginevra sull’opportunità di accettare la donazione del signor Jean Claude Gandur, che vorrebbe collocare le sue importanti collezioni di arte antica e moderna presso il Museo di Arte e Storia di Ginevra, offrendo 40 milioni di franchi per sostenere l’ampliamento e il rinnovamento del museo. Qualcosa del genere accadde nel 1918 a New York, con un esito carico di conseguenze. La scultrice e magnate Gertrude Vanderbilt Whitney voleva donare 500 opere di arte americana al Metropolitan Museum, che rifiutò l’offerta. Così creò quello che sarebbe divenuto il Whitney Museum, che fu inaugurato nel 1931.

Da quel momento il Whitney è divenuto un luogo dedicato alla storia dell’arte americana ma anche l’istituzione che attraverso mostre e acquisizioni, promuove artisti viventi .

imagesOggi il Whitney Museum ha subito una nuova trasformazione, e il nostro più grande architetto, Renzo Piano, è stato invitato a progettare un nuovo museo in grado di ospitare al meglio la grande collezione, passata nel frattempo da 500 a 21.000 pezzi.

L’invito a Renzo Piano è stato fatto nel 2004 e da poco più di un mese si è aperta la nuova sede.images

Il nuovo museo si trova ora nel Meatpacking District, la zona dove si trovano i mattatoi e il mercato di carni della città. L’edificio si affaccia da un lato sul fiume Hudson e dall’altro sul termine della High Line, una linea ferroviaria elevata ormai in disuso trasformata in un camminamento pedonale.

Dovendo tradurre in immagine l’edificio Renzo Piano ha scritto è una grande fabbrica, sollevata da terra, che da un lato guarda verso l’acqua e dall’altro verso la città”. Otto piani, a sud gli spazi espositivi a nord gli uffici: all’interno anche un teatro e spazi dedicati a laboratori educativi.

Sul lato est del museo si vedono i diversi piani “come in uno ziggurat che degradano verso la High Line e Washington street mentre la massa dell’edificio aumenta verso il fiume Hudson. Ogni piano ad est, si affaccia su una terrazza che si può utilizzare come sala espositiva all’aperto. L’edificio è rivestito d’acciaio in correlazione con il quartiere costituito per lo più da edifici industriali in mattoni e metallo, per gli interni invece è stato scelto il cemento a vista.

Io sono tra coloro che ancora non hanno visto il nuovo museo Whitney ma che hanno potuto avere tra le mani il catalogo di Renzo Piano. Ho apprezzato molto la scelta di farlo in italiano-inglese, un gesto di rispetto per la nostra identità culturale. Si, perché l’Italia merita rispetto in campo culturale ma a volte sembra distratta. Fatemi fare un esempio: che ne è della lingua italiana nella nostra famosa Biennale di Venezia e dove sono stati rilegati i nostri artisti? Sono nel canalino di coda dell’ Arsenale e con questo abbiamo detto tutto.

La sala di Lettura

The Goldfinch (Il Cardellino), di Donna Tartt

Il cardellinoNon so proprio da che parte iniziare a parlare di questo libro. Non so se cominciare dalla sua autrice Donna Tartt, che con quest’opera ha vinto il premio Pulitzer della narrativa 2014, la quale già scrittrice di successo si è ripromessa di dare alle stampe solo cinque libri nella sua esistenza, uno ogni decennio. O dagli inevitabili echi letterari che ci evocano le (dis)avventure di Theo, il protagonista per gran parte del libro adolescente, che ci fanno pensare a Salinger, per le atmosfere di una New York vista con gli occhi di un ragazzino, o a Dickens, per la sua storia di orfano sconsolato e irrimediabilmente solo.

Non sbaglio senz’altro affermando che si tratta di romanzo complesso giocato sulle vicende di un outsider, in cui malinconia, dolore per la perdita (il protagonista perde la madre in un attentato all’inizio del romanzo), incapacità di rapportarsi agli altri la fanno da padrone per un lungo, anzi lunghissimo (il romanzo è di circa 900 pagine) flashback, che tuttavia, grazie alla capacità dell’autrice, non risulta mai pesante con la sua prosa chiara, piana, precisa che non ce lo fa abbandonare stremati.

 

Un altro elemento che si intreccia al racconto è la presenza costante, come un leitmotif, di un capolavoro dell’arte di tutti i tempi le cui vicende sono strettamente connesse alla storia del protagonista. L’opera è quella che dà il nome al libro della Tartt, Il cardellino di Carel Fabritius, allievo di Rembrant, morto giovanissimo all’apice del successo, che diventa una vera e propria ossessione per Theo e lo porta ad affermare sul finale “è un onore e un privilegio amare ciò che la morte non tocca… Nella misura in cui il quadro è immortale (e lo è), io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte in quella immortalità. Esiste e continuerà ad esistere. E io aggiungo il mio amore alla storia delle persone che hanno amato le cose belle”.

Insomma un bel libro di amplissimo respiro, un po’ rovinato nelle ultime duecento pagine dal gusto decisamente americano per il colpo scena violento che risolve la situazione giunta al punto di non ritorno, ma che poteva dipanarsi senza cambiare lo stile di tutta la storia precedente.

Da leggere, per chi ne ha voglia e soprattutto tempo.

Fundamentals: 14 biennale di architettura a Venezia

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Il 7 giugno si aprirà a Venezia la 14° edizione della Biennale di architettura. Quest’anno il curatore è l’olandese Rem Koolhaas, architetto urbanista e saggista. Tutta la mostra è racchiusa nel titolo Fundamentals. Pensata come un corpo unico, i padiglioni internazionali e quello centrale ruotano attorno alla storia della modernità per arrivare a comprendere meglio gli sviluppi più recenti e tracciare anche un’idea di architettura per il futuro.
Fundamentals si divide in tre sezioni: “Absorbing Modernity 1914-1924, Elements of Architeture e Monditalia”.

Rem Koolhaas
Rem Koolhaas

 

La prima sezione, Absorbing Modernity sarà presentata nei diversi padiglioni internazionali, ogni paese è invitato a riflettere sulla propria tradizione architettonica e sulle trasformazioni avvenute nell’adottare il linguaggio moderno nel tempo.

Nel padiglione centrale dei Giardini invece si troverà allestita la mostra Elements of architecture, in cui l’attenzione si concentra attorno a tutti gli elementi più comuni usati dagli architetti: dai pavimenti, alle facciate, i balconi, i corridoi, le scale e così via. “Vogliamo dare uno sguardo nuovo agli elementi fondamentali dell’architettura – ha detto Koolhaas – utilizzati da qualsiasi architetto, ovunque e in qualsiasi momento per vedere se siamo in grado di scoprire qualcosa di nuovo sull’architettura”.

Infine la sezione Monditalia si terrà nel padiglione Italia e avrà il compito di riunire e far incontrare aree diverse di interesse, legate però sempre all’architettura come la tecnologia, l’economia, la politica e la religione.

Nel giorno dell’inaugurazione verrà consegnato il Leone d’oro alla carriera, quest’anno andrà ad una donna, l’architetto Phyllis Lambert. Architetto, storico e critico d’architettura, ma anche fotografa Phyllis Lambert è stata la fondatrice e direttrice del Canadian Centre Architecture a Montreal (un centro studi nato per promuovere e divulgare la conoscenza dell’architettura e conservare episodi fondamentali del patrimonio architettonico). Oltre a questo ricordiamo che nel 1955 ha ricoperto il ruolo di Direttore della pianificazione del Seagram Building , il grattacielo progettato da Ludwig Mies Van Der Rohe e Philip Johnson (1954-58) a New York.

Seagram Building
Seagram Building

Tra le tante motivazioni per il premio che le verrà assegnato si legge “gli architetti creano architettura Phyllis Lambert ha creato architetti”.

La Biennale di Venezia è un’occasione da non perdere, certamente questa è dedicata a tutti  gli architetti, ma anche a tutti gli appassionati che vogliono capire un po’ di più sullo stato attuale dell’architettura, lo sviluppo e le prospettive future per le nostre città.

 

 

Ghost signs, una finestra sul passato

Twinings teaUn tempo, quando non si era ancora capaci di produrre a stampa cartelloni pubblicitari di grande formato e l’era digitale era ancora molto molto lontana, coloro che si volevano fare pubblicità, o che semplicemente volevano mettere in risalto in modo diverso la propria attività attraverso un’insegna accattivante, chiamavano degli specialisti del settore, i cosiddetti “walldogs”, che con maestria e inventiva dipingevano su grandi superfici, di solito muri in mattoni di palazzi, fabbriche o negozi, il messaggio che si voleva trasmettere.

I walldogs, termine decisamente dispregiativo, erano così chiamati perché lavoravano davvero come cani, cioè in condizioni spesso insostenibili e pericolose, abbarbicati alle facciate degli edifici in costruzione, penzolando da corde di fortuna.

La loro epoca d’oro furono gli anni fra la fine dell’800 e l’inizio del 900, durante i quali i walldogs produssero una serie impressionante di cartelloni pubblicitari nelle maggiori città del mondo soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia.

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Di questi murales ante litteram rimangono spesso solo vestigia, i “ghost signs”, cioè quei disegni fantasma che ancora si intravedono sbiaditi e malconci in alcune città famose da San Francisco a New York, da Londra a Parigi. Le vernici che venivano usate erano ricche di piombo, cosa che ha aiutato la loro conservazioni negli anni, alcuni di essi hanno conservato solo pochi dei tratti primitivi in quanto al cambio del proprietario dell’immobile poteva capitare che anche la pubblicità nel murales cambiasse.

A partire dal 1990 si è creato attorno a questi cartelloni pubblicitari un grande interesse, tanto che non solo è nato un nuovo movimento che ne copia lo stile e i colori, ma addirittura è stato creato un archivio digitale che conserva la foto di più di 800 esempi di questa che può essere definita una vera e propria arte, in quanto la diversità delle forme scritte e delle illustrazioni evidenzia l’abilità e il talento che ogni signwriter apportava al proprio lavoro, in palese contrasto con gli attuali manifesti tirati in migliaia di copie.

Ho un ricordo molto sbiadito di quando ero bambina. In effetti ricordo un disegno pubblicitario, perché mi faceva abbastanza paura. Si trattava di un viso di bambino dipinto fuori dalla latteria, reclamizzava lo yogurt Yomo, ma non sono del tutto sicura che questo piccolo murales sia esistito davvero o se piuttosto sto facendo delle sovrapposizioni di diversi ricordi. Per il resto in Italia, di questo tipo di cose, pare abbiano resistito solo e ancora le tristi scritte del “duce”.

Le scatole “magiche” e i pezzi di memoria

cornell Cosa può contenere una scatola? Tutta una vita: cartoline, fotografie, ritagli, francobolli che ricreano il percorso personale di chi ha deciso che questi oggetti avevano la dignità di essere conservati. Per questa ragione ho apprezzato il compito assegnato ad uno dei miei figli, in partenza per la facoltà di architettura, di ricreare la propria vita in una scatola, inserendovi i simboli di ciò che più era contato per ognuno, compito basato sui ricordi e le aspettative personali.

Tutto ciò per presentare una mostra suggestiva che si è aperta a Lione il 18 ottobre 2013 e chiuderà i battenti il 10 febbraio prossimo, curata da Sylvie Ramond, capo conservatrice del patrimonio e direttrice del museo di Beaux-Arts de Lyon, da Matthew Affron, Muriel e Philip Berman curatori del Modern Art, Philadelphia Museum of Art sull’opera di Joseph Cornell, “l’inscatolatore di mondi” (La lettura, inserto del Corriere della Sera, domenica 5 gennaio 2014): Joseph Cornell et les surréalistes à New York.

Brevemente chi era questo artista legato al surrealismo americano. Cornell nacque a New York da una famiglia di origine olandese. Rimasto orfano in giovane età e con il peso di una famiglia da mantenere prima lavora in un magazzino di tessuti, poi inizia a vendere frigoriferi porta a porta e forse proprio l’immagine del frigorifero nel quale si conservano, stipandoli, decine di cibi differenti, gli suggerirà la creazione delle sue scatole d’arte. A cambiargli la vita l’incontro del tutto casuale dapprima con l’opera di Max Ernst e poi con lo stesso artista e con Duchamp, Tanning, Matta, Moore, Motherwell.

“Il surrealismo ha avuto un’influenza determinante nell’opera di Joseph Cornell. cornell 2Si situa all’origine del suo metodo di lavoro: il collage e i processi ad essi associati quali il montaggio, la costruzione e l’assemblaggio. Cornell deve moltissimo al surrealismo – la concezione fondamentale dell’immagine come prodotto della giustapposizione poetica- ma è ugualmente vero l’inverso. L’esposizione permetterà di comprendere meglio le novità apportate dall’artista. Parallelamente essa mostrerà il personalissimo percorso artistico e poetico di Cornell fra le scene artistiche europee e americane e la frattura provocata dal conflitto mondiale” (dalla presentazione on line della mostra di Lione).

Le scatole di Cornell sono struggenti, ogni singolo elemento evoca un ricordo, sono “archivi della memoria” e “piccoli rifugi della poesia”. La mostra è assolutamente da vedere.

Prove di Natale, n° 1

regalo di NataleNatale si avvicina. Vi farete trovare come al solito impreparati o fate parte di quella stretta cerchia di persone che dopo aver stilato un accurato e impeccabile elenco riesce a comprare tutti i regali, per tutti gli amici e i parenti mesi prima (conosco persone che battono mercatini e negozietti fin dall’inizio dell’estate…)? Cioé fate parte di quella schiera di sciattoni come me, che improvvisano fino alla mattina di Natale, rimediando spesso terribili figuracce, o affrontate il « problema regalo » con perizia scientifica (senza cioé ripetersi o sbagliare taglia, numero, persona ecc ecc)?

Per i secondi è stata redatta una lista delle dodici migliori città nelle quali si può fare shopping natalizio. I parametri di scelta sono stati rigorosi: come muoversi (qualità del trasporto pubblico, accessibilità e disponibilità di taxi, tempi di trasporto e percorrenza); valore (cioè le stagioni di vendita e i prezzi medi); varietà (cioè numero di marche disponibili, gamma delle categorie commerciali, quantità di negozi di lusso, grandi magazzini, boutique, rivenditori vintage e bancarelle); esperienza (parametro basato su bellezza della città, qualità delle vetrine e dei negozi, cordialità e competenza degli impiegati e dello staff, possibilità di alloggio e vitto). Al primo posto naturalmente c’è New York, seguita da Tokyo, Londra, Kuala Lumpur, Parigi, Hong Kong, Buenos Aires, Vienna, Dubai, Madrid, Milano e Seul. In queste città si trova di tutto e di più, i prezzi possono essere scandalosamente alti o pazzescamente bassi, le idee, per essere almeno una volta originali la mattina di Natale, vi assalgono mentre state guardando le vetrine.

Io mi chiedo, c’era davvero bisogno di fare uno studio accurato per arrivare a capire che fare shopping in una megalopoli è più facile che farlo a Busto Garolfo?

Senza cadere nella trappola moralistica sul genuino significato del Natale, reputate che sia davvero necessario il «regalo» di  Natale ? Se credete che la tradizione debba essere rispettata pensate che debba essere «utile» o completamente «inutile e frivolo» ? Basta il pensiero o bisogna andarci giù duri ?

Raccontatemi cosa ne pensate e cercate di riappacificarmi con la tradizione ridondante che faccio fatica  a seguire ed apprezzare…

Silent dinner

Silent dinner

Una delle caratteristiche che Camilleri ha dato al Commissario Montalbano è quella di tacere durante i suoi leggendari pranzi. Sia quando la cameriera Adelina gli prepara una semplice « pasta incasciata » sia quando il poliziotto si siede al tavolo della trattoria da lui preferita, da Enzo, dove consuma pasti di cui ci sembra di sentire il profumo, accompagnati spesso da generosi bicchieri di vino.

Il Commissario tace, tace per non rovinare il gusto al palato, tace per omaggiare lo chef, tace perché mangiare è una sorta di rito dal quale nessuna parola deve distoglierci, e ci sembra di vedere lo stesso Camilleri che si gusta le triglie in umido o il fritto di paranza allo stesso modo del suo personaggio.

Dalla assolata Sicilia e dalle pagine di un romanzo ci spostiamo rapidamente a New York, quella vera, fatta di sirene assordanti, grida, traffico, una delle megalopoli più rumorose della terra… Qui, in un piccolo ristorante a nord di Brooklyn di nome Eat, dove tutto è organico, cucinato sul momento e servito in modo assolutamente naturale, da qualche tempo, una volta al mese, viene servita una cena particolare: un «silent dinner» della durata di quattro portate, durante le quali né camerieri né clienti possono proferire motto. L’idea è venuta al proprietario dopo un soggiorno in India durante il quale assistette ad un pasto in un monastero, dove il cibo veniva consumato in perfetto silenzio (si si proprio come dovevamo fare nel refettorio delle suore !).

Il perfetto silenzio, pare, aiuti coloro che mangiano a concentrarsi solo sul cibo e sull’azione di cibarsi, e, secondo un ricerca effettuata in Australia, poiché i rumori distraggono la nostra capacità di gustare i cibi, ciò aiuterebbe ad apprezzare ogni più leggero sapore.

I silent dinners sono diventati subito un successo nel mondo anglosassone e il progetto è quello di esportarli un po’ ovunuqe.

Inoltre sono diventati parte integrante anche del progetto artistico di Honi Ryan, artista australiana che crea arte attraverso i media, realizza performances, sculture sociali e istallazioni. Interessata all’arte come modello di vita alternativo afferma che i “silent dinners”  « ci spingono a vivere l’attimo e offrono la possibilità di connettersi in uno  spazio reale che solitamente é mediato da parole e immagini, mettendo in evidenza le differenze culturali e rivelando una umanità di base ».

Ma questa nuova moda prenderà piede anche da noi, o meglio con noi italiani ?

Noi che della convivialità a tavola facciamo bandiera ? Certo comunuqe meglio che guardare il telegiornale a cena…

Gangnam style 2… la vendetta

Anish KapoorAnche Anish Kapoor si è messo in gioco… è sceso infatti in campo per ribadire la necessità che l’espressione artistica rimanga libera da ogni tipo di legame sia esso politico, sociale o economico. Sulla scia del filmato postato su You tube da Ai Weiwei, che ha fatto infuriare le autorità cinesi, Anish Kapoor insieme ad un nutritissimo gruppo di esponenti dell’arte e della cultura mondiale si è esibito nella stessa danza sfoggiando anch’egli una giacca rosa confetto e e occhiali da sole scuri.

Hanno aderito all’iniziativa MoMA, Guggenheim, New Museum, Brooklyn Museum e il Whitney Museum of American Art di New York; l’ Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington; il Philadelphia Museum of Art; il Museum of Contemporary Art di San Diego; personalità quali Helen Bamber; Hanif Kurieshi, artisti come Mark Wallinger, Bob e Roberta Smith e Tom Phillips, ballerini del calibro di  Tamara Rojo e Deborah Bull.

Anish Kapoor ha ricevuto il plauso di altri grandi dell’arte, prima fra tutti Marina Abramovich, la quale non estranea al gusto della provocazione, ha sostenuto la performance di Kapoor.

L’ambientazione e il balletto sono molto semplici ma ricchi di simboli e metafore a partire dalla immancabile presenza delle manette (già usate da Ai Weiwei), dalle maschere che riproducono l’artista cinese, dalle scritte sul muro alle spalle dei ballerini che riportano il nome di molti artisti che negli anni hanno subito ingiustizie ed intimidazioni (fra gli altri compare anche il nostro Saviano e le Pussy Riot) fino al gesto di contestazione tipico dei piccoli che manifestano il dissenso: battere i pugni sul muro.

Nel bel mezzo del filmato compare chiara la scritta: “End Repression, Allow Expression” che diventa la frase simbolo riassuntiva di tutta l’operazione. Che dire? Noi stiamo con lui!