Rabbia, ma nessuna rassegnazione

Oggi diamo spazio ad  un  amico impegnato in Costa d’Avorio, il suo messaggio è duro, uno sfogo, mosso dal desiderio di raccontare la sua esperienza. La foto che abbiamo scelto  per il testo sono opere dell’artista polacca Magdalena Abakanowicz e sono state scelte da noi.

Tempo fa, entrando all’ospedale regionale distante 30 km  da dove vivo e lavoro (cioè un centro sanitario in Costa d’Avorio creato da una Fondazione italiana di cui sono il supervisore) un infermiere, tra le risate generali, chiamandomi per nome , mi chiese “cerchi i tuoi bambini?”.

È passato un anno e più forse dall’episodio, ma la cosa non esce dalla mia testa, e continua a farmi schifo! Si, cercavo i “miei bambini”. O meglio, cercavo sangue per trasfusioni per uno dei “miei” bambini del centro. La diagnosi è sempre la stessa: malaria, quindi anemia, quindi la trasfusione è necessaria, bisogna cercare sangue. A volte è semplice, altre no, altre volte non si trova, e finisce li…

Questo ridere di un africano dei suoi figli morenti o il nostro ridere delle sofferenze degli altri è una cosa che ci unisce nella nostra comune appartenenza alla razza umana, e non aiuta.

Mentre vedo i miei colleghi neri al centro sanitario che gestisco prodigarsi, ben oltre i loro turni di lavoro spesso, per assistere malati o cercare di parlare con le  famiglie per praticare un minimo di prevenzione, mi sento attorniato da vere e proprie bestie, come un anno fa all’entrata dell’ospedale pubblico regionale.

Quali, quanti e fino a dove possono essere i danni delle nostre mentalità distorte? Un mafioso, un delinquente diventano tali solo perché nascono in un contesto di povertà o è colpa della famiglia di appartenenza, o della società in cui vivono o…?

E quando al centro arrivano bambini di 2 anni che pesano solo 6 kg (nella regione in cui vivo e lavoro in Costa d’Avorio, al confine col Ghana, le soluzioni per mangiare ci sono eccome, quindi non si tratta solo di povertà) riuscirò a farmi ascoltare dai genitori?

Su queste verità, basate su comportamenti oggettivi, si creano opinioni.

Ma voglio fare un salto indietro, a quando ero bambino nei primi anni ottanta in Italia. Mi ricordo di  quando mi dicevano del povero nero che è sempre l’ultimo della fila a prendere la mela (c’era un manifesto così  a scuola e il pensiero mi porta subito all’infermiere che ride dei miei bambini) e della mafia che non esiste (lo disse una volta un’autorità in pubblico in tv, mi ricordo). Anche da queste opinioni, si creano mentalità. Ho allora l’impressione che qualcuno stia “giocando” col nostro fegato.

Come possiamo proteggerci dalle miserie della nostra razza, e dai miserabili che le fanno vivere, per soldi, potere o entrambi, ogni giorno? (lasciamo stare i massimi sistemi,per carità).

Sarà la bellezza a salvarci o quella famosa risata li seppellirà?

Io, intanto, continuerò a cercare sangue…

“Natura non rompe sua legge”

Non tutti sanno esattamente che cos’è il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci.

Si tratta della collezione di manoscritti e disegni di Leonardo (1750 disegni su 1119 fogli) che meglio ci è stata tramandata e che meglio rappresenta gli ultimi 40 anni della vita di Leonardo da Vinci come scienziato e intellettuale. Dopo l’ultimo restauro (oltre 40 anni fa) il Codice, conservato nei caveux della Biblioteca Ambrosiana di Milano, era stato rilegato in fascicoli. Nel 2007 si era sparsa la notizia che su di esso erano comprase temutissime macchie nere, attribuite allora alla muffa. Le suore benedettine di Viboldone, sotto il controllo dell’Istituto Nazionale di Patologia

del Libro, della Commissione Vinciana e con il sostegno delle analisi effettuate alla Sapienza di Roma, ebbero l’incarico di procedere alla sfascicolazione del volume vinciano, riportandolo alla forma che aveva assunto nel ‘500. Infatti, nel XVI secolo il pittore Pompeo Leoni era riuscuto a radunare molto materiale degli studi di Leonardo e fra gli altri circa 2000 fogli isolati e di varia grandezza, che l’artista organizzò in due grossi album: uno con i disegni artistici, divenuto proprietà dei reali d’Inghilterra e attualmente citati come Fogli Windsor, l’altro contenete disegni di carattere prettamente meccanico e geometrico, che prese il nome di Codice Atlantico. Al termine del lavoro di sfascicolazione e ricomponimento operato in due anni dalle suore benedettine, la Biblioteca Ambrosiana con il contributo della  Fondazione Cardinale Federico Borromeo e della Banca Popolare di Bergamo ha programmato fra il settembre del 2009 e il giugno del 2015 ventiquattro mostre tematiche dedicate al grande Leonardo da Vinci utilizzando i fogli del Codice Atlantico.

Il 12 giugno si è aperto il dodicesimo evento curato dal professor Pietro Carlo Marani e da una carissima amica la dottoressa Rita Capurro, che si è occupata anche del catalogo della mostra.

La dodicesima esposizione intitolata Leonardo scienziato della terra è dedicata alle incredibili intuizioni e ai disegni riguardanti lo studio del pianeta.

Nel catalogo leggiamo «L’approccio vinciano agli studi sulla terra considera gli elementi connessi alla sua forma, dimensione e relazione con altri corpi celesti. […] Quando egli affronta lo studio della terra si pone in un atteggiamento in primo luogo di osservazione e misurazione, in un’ottica che potremmo definire più propriamente geografica. […] Quando invece approfondisce aspetti più propriamente delle scienze geonomiche, lascia emergere un’attenzione specifica all’osservazione integrata a considerazioni intuitive, secondo un metodo che appare molto affine agli studi nostri contemporanei di scienze della terra. […] ».

La mostra come le precedenti, si protrarrà per tre mesi ed è suddivisa in due sezioni: la prima presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Sala Federiciana, Piazza Pio XI, 2, e la seconda presso la Sagrestia Monumentale del Bramante, ingresso da Via Caradosso, 1.

C’è molto da imparare dai disegni a volte visionari di questo ambientalista ante litteram, che ha fatto dell’osservazione e della comprensione della natura l’arma del suo sapere, il punto di partenza per la comprensione non solo dello spazio fisico che circonda l’uomo, ma della natura umana stessa.

L’arte è come lo champagne è meglio quando è Brut

L’arte è strana: credi di conoscerla perché hai  visitato da sempre i musei e le gallerie, hai letto libri e comprato i cataloghi delle mostre più rappresentative. Poi scopri che c’è un mondo del tutto fuori dai canoni ufficiali che è più arte dell’arte. E’ fatto da chi non sa di essere artista ma, molto spesso emarginato dalla società, ha la necessità di produrre una realtà interiore in cui far affiorare il proprio spirito.  E questa realtà è lo specchio di qualcosa che è anche ben serrato dentro di te.

Vedere queste opere nel Museo di arte Brut di Losanna mi hanno provocato una forte emozione.

Il Museo di arte Brut a Losanna è un luogo unico, nato dalla collezione di opere donate dall’artista francese Jean Debuffet  (1901-1985).  Jean Debuffet,  esponente nel  dopolaguerra  dell’ Art autre,  fu da sempre interessato a ogni forma di espressione spontanea e immediata, frutto dell’inconscio più che dell’intelletto.  Con questo interesse Debuffet, nel 1947, sviluppa l’idea dell’art brut cioè quell’arte che raccoglieva opere di dilettanti, bambini, alienati mentali, assieme a graffiti anonimi ripresi da vecchi muri. L’intento era quello di recuperare delle manifestazioni artistiche spontanee. Oggi quel nucleo di opere si trova a Losanna. Il museo si è aperto nel 1976 e da quel momento sono state organizzate molte esposizioni; e la collezione si è notevolmente arricchita.

L’artista brut generalmente è un autodidatta che per diverse ragioni è sfuggito al condizionamento culturale e al conformismo sociale. L’artista brut è povero di mezzi. Per farvi un esempio, Wolfli  incastra delle mine di pastello dentro le sue unghie mentre Ramirez si inventa una pasta a base di patate e di mollica di pane. Ciò che li accomuna è la forte necessità di dare forma alle loro emozioni: sono sempre una risorsa d’ingegnosità .  L’artista brut è minuzioso; molto spesso si inventa dei segni, degli alfabeti immaginari, delle parole o dei nomi. Per esempio Darger racconta le avventure degli Angeliniens dei Gandeliniens e così via.

In questo momento nel museo si può visitare la mostra dedicata ad Aloise Corbaz. Le sue opere furono collezionate da Debuffet. Aloise (1886-1964)  nasce nel cantone di Vaud  e viene internata a trentadue anni per schizzofrenia.

Da quel momento si ritira nel suo mondo fatto di una vasta cultura biblica, libraria e musicale. A poco a poco si dedica sempre di più alla scrittura, alla pittura e al disegno. Per più di quaranta anni realizzerà una creazione gigantesca rulli di disegni cuciti assieme, come un grande mantello.  La mostra svela un mondo denso e completo, erotico, sontuoso, ricco di immagini, fiori, animali, imperatori, regine e cantanti.

La mostra, aperta il 2 giugno, sarà visitabile fino al 26 agosto in due sedi: nel museo di Arte Brut e nel Museé cantonal des Beaux-Arts sempre a Losanna.

Il titolo “l’arte è come lo champagne..non è mio ma di Françoise Monnin (dalla rivista Art tension, fuori seri .n.4, settembre 2010)

… ci piace

ci piace tanto, ma veramente, tanto l’articolo del filosofo Guido Ceronetti sul Corriere on line di domenica 10 giugno: un grido di angoscia contro il telefono cellulare. Dopo anni di resistenza infatti anche Ceronetti si è fatto affascinare dal diabolico strumento che ti tiene sempre connesso e reperibile, al punto da suscitare vere e proprie crisi di astinenza in chi per un malcapitato evento se ne deve separare… l’esasperazione lo porta ad affermare “Il cellulare è una pulce che ha uno stomaco da elefante. Lo smartphone è un baratro senza fondo in cui l’Utente (l’essere, l’anima umana), una volta catturato, precipita senza fine”. Vorremmo aggiungere che anche altre nuove tecnologie suscitano in noi tale sgomento….

il colore come arma per leggere lo spazio: Daniel Buren al Grand Palais

Per chi fosse un italiano in transito a Parigi oppure per chi in questo periodo ha in programma un viaggio nella capitale francese, vorrei suggerire una visita al Grand Palais dove, nella cornice di Monumenta, potrà visitare la grande installazione di Daniel Buren.

Monumenta infatti è un avvenimento artistico molto atteso a Parigi, che si tiene ogni anno al Grand Palais e consiste nell’invitare ogni volta  un’artista di fama internazionale a produrre per quello spazio una monumentale installazione temporanea.  In passato sono stati ospitati gli artisti Anselm Kiefer, Richard Serra, Anish Kapoor e Christin Boltansky .

Come sempre le opere dell’artista francese Daniel Buren si presentano sotto la forma di installazione e  non nascono nello studio ma sono la realizzazione di un’idea nata in situ.  Il suo lavoro, infatti,  è sempre in relazione allo spazio. Anche in questo caso sembrerebbe voler mettere in risalto la complessità architettonica del posto.  Lo spazio viene riletto anche dall’uso del colore che per Buren ha un rulo molto importante, lui stesso definisce il colore “ L’ elemento visuale che appartiene alle arti plastiche. E’ connesso all’arte come il suono è connesso alla musica. E’ un pensiero puro che non può essere tradotto” .

Ogni volta il visitatore vive davanti alle opere di Buren  un susseguirsi di situazioni visuali in cui viene coinvolto in prima persona e diventa parte attiva dell’opera: è infatti il suo muoversi e immergersi dentro l’opera che permette di ricomporre i quadri e le forme geometriche dell’ambiente.

Nello spazio al Grand Palais Buren ha dato un grande risalto  alla luce filtrata dal soffitto e ha giocato con la forma geometrica del cerchio, facendolo divenire il tema dominante che evidenzia il cerchio  della cupole, dei balconi e delle nicchie interiori.

Assolutamente da non perdere : Daniel Buren  “Monumenta 2012” (Parigi, Grand Palais 10 maggio-21 giugno)

Uscire dalla crisi

Un missionario comboniano vive per anni in una baraccopoli, occupandosi di alcuni tra gli ultimi del pianeta. Un amministratore pubblico italiano si barcamena nella confusione della nostra politica. Ci saranno due esperienze più diverse? Eppure proprio due persone così si sono unite col fine di scrivere un libro sulla crisi che stiamo attraversando. Indubbiamente un libro di attualità: se ne  parla molto di crisi, di questi tempi. E se ne parla con riferimento all’economia, che sembra non voler ripartire, ma anche con riferimento alla società, che deve trovare nuove forme di solidarietà e di convivenza, e alla cultura, che sembra non avere più una bussola, persa com’è negli orizzonti amplissimi dei nuovi mezzi di comunicazione.

E che avrà mai da dirci questa strana coppia su tutto questo? Ci propone qualche idea su come superare questa crisi partendo da un presupposto diverso. Per gli autori non siamo nel mezzo di un problema economico o sociale risolvibile con i criteri cui siamo abituati. Siamo di fronte a cambiamenti che sono qui per restare e che richiedono un nuovo approccio. In economia, tutto un sistema di produzione del valore sta cambiando. Nella società si deve cercare una forma di solidarietà, che sappia far fronte al fatto che si vivrà sempre, o almeno molto a lungo, gomito a  gomito con chi vede la vita in maniera radicalmente diversa da noi.

Tutto questo, per gli autori, discende da una crisi del nostro modello antropologico. Non si puo’ vedere solamente l’uomo al centro dell’universo, signore assoluto. Questo è da troppo tempo il nostro modello, che poi porta ognuno di noi a mettere se stesso al centro di tutto, col corollario di distruggere l’ambente e le relazioni fra gli esseri umani. Ma non regge più. Per gli autori, bisogna vederci in maniera nuova in questo mondo, come custodi di beni che sono più grandi di noi: il pianeta e il futuro dell’umanità. Se vediamo le cose in quest’ottica ci comportiamo diversamente: non cerchiamo più l’utilità, il profitto, immediati per le nostre azioni; piuttosto cerchiamo di capire prima di tutto l’impatto di queste ultime sui nostri simili e sull’ambiente.

Ciò ha implicazioni di ampia portata, a partire dal calcolare il profitto di un’attività economica non solo sulla base del valore immediato del ritorno dell’investimento ma anche sul guadagno o la perdita aggregata che provoca sulla comunità. Un tempo l’economia ci parlava di esternalità positive o negative per descrivere gli effetti delle attività economiche sull’ambiente esterno. Se ne cercava una misura. Magari si controbilanciavano quelli negativi (inquinamento, ad esempio) con la tassazione. Questa nuova ottica cerca invece di far sì che uno pianifichi i propri obiettivi prendendo subito in considerazione anche questi elementi, senza lasciarli da parte, per poi fornire una qualche riparazione forzatamente tardiva e parziale.

Ed è curioso vedere come il linguaggio di questi autori, a volte molto (un po’ troppo) filosofico, si avvicini per certi versi alle note sullo shared value di Michael Porter, il guru della competititvità di azienda, che recentemente è giunto a conclusioni simili. Ma il libro non si dilunga su nuove teorie economiche. Vuole anche essere una guida pratica su come uscire da questa crisi: cosa fare nella vita di tutti i giorni per rimettere pianeta e futuro comune al centro della nostra vita? Risparmiare l’acqua, usare meno energia, ridurre la quantità di Co2 implicita nelle nostre vite, favorire processi a basso impatto ambientale, mangiare organico e così via sono atti che ognuno può fare. Sembra che gli autori ci richiamino a un’etica della responsabilità, fatta da scelte quotidiane concrete. Scelte che comprendono anche l’attenzione per gli ultimi. Se la società nel suo inseme non è chiamata a partecipare, non v’è più benessere possibile.

In definitiva quella che loro propongono è una navigazione a vista, basata su un continuo cercare soluzioni, tenendosi tutte le possibilità aperte, anche se si sa dove si vuole andare: un mondo a misura di essere umano.

In questo l’esperienza in Africa del missionario è interessante. Il modo in cui gli abitanti delle baraccopoli sopravvivono è una forma di continua collaborazione informale, a schemi aperti: si cerca la via ogni giorno, collaborando assieme in maniera responsabile. In sociologia questo modo di procedere si chiama “informal open ended cooperation”. Nelle baraccopoli questo lo si fa di già. Si naviga a vista per scoprire come sopravvivere unendo le forze. Gli autori dicono che possiamo farlo anche noi. Per loro, sono le baraccopoli che stanno facendo la parte migliore della nostra storia.

Se si pensa che almeno il 30% dell’umanità vive in quella condizione, non c’è da stupirsene piu’ di tanto.

Salva il pipistrello e… salverai il pianeta

Il 2012 è stato proclamato dal CMS (convention on migratory species) dell’UNEP (united nations environment programme) in collaborazione con EUROBAT (la lega per la conservazione della popolazione europea di pipistrelli) L’anno del pipistrello. Nel corso di tutto il 2012 si susseguiranno, in tutto il mondo, eventi per celebrare i vari aspetti della conservazione di questa specie, per rispettarne la biodiversità e monitorarne vita e abitudini.

Sebbene la tradizione ci abbia consegnato l’immagine di animali immondi, né uccelli né ratti, legati in vari modi a superstizioni che li hanno resi decisamente impopolari, questi mammiferi sono non solo utilissimi insetticidi naturali (riescono in un notte a mangiare più di 5000 insetti), ma sono anche determinanti  per l’impollinazione e per la dispersione dei semi delle piante forestali e sono delle vere proprie “macchine per volare” sofisticatissime, inoltre sono gli unici mammiferi che sono in grado appunto di volare senza nessun ausilio supplementare (e già solo questo dovrebbe suscitare il nostro grande rispetto).

Fra gli altri avvenimenti organizzati in favore dei pipistrelli, il mese scorso si è tenuto ad Oxford, in Gran Bretagna, un primo meeting molto particolare: si sono, infatti, riuniti architetti provenienti da tutto il regno per discutere della costruzione di case adatte ai pipistrelli, the ultimate dream home for bats. Questi animali, poiché non costruiscono nidi o rifugi trovano il loro habitat in cavità naturali o alberi, o ancora nelle crepe dei muri, negli interstizi fra i mattoni (alcuni di essi sono così piccoli che possono comodamente sistemarsi in buchetti nei quali noi stenteremmo a mettere le dita) e le grandi colonie trovano posto negli antichi abbaini, ma poiché ci siamo dati un gran da  fare per distruggere il loro ecosistema e i loro habitat, un modo per recuperare spazi utili ai pipistrelli è quello di adattare le nostre abitazioni al loro stile di vita… ed ecco allora che il Royal Institute of British Architects in collaborazione con la Bat Conservation Trust, offre un nuovo corso di tre ore, con lo scopo di educare gli architetti sui pipistrelli, insegnando ai partecipanti la dimensione ideale, i punti di accesso, la temperatura, i materiali e un percorso adatto ai piccoli (in Europa) animali.

Un esempio per tutti è la summer house progettata e realizzata dall’architetto britannico Charles Barclay nel Suffolk. Il progetto è nato dall’esigenza di preservare una comunità di pipistrelli che l’architetto aveva trovato nella vecchia fattoria che aveva avuto il compito di rimodernare. Questo ha aguzzato il suo ingegno, che lo ha portato a creare un ambiente per questi pipistrelli realizzato in materiali ecocompatibili, con particolari angoli di accesso agli abbaini che sono stati resi particolarmente confortevoli per le famiglie che vi sono state trasferite  nel giro di sei settimane in borse termiche, con soffici rivestimenti.

Nel caso voleste a questo punto adottare un pipistrello, ma non avete il coraggio di farlo stabilire nell’abbaino di casa vostra, potete fare una donazione di 3 sterline al mese e adottarlo a distanza (di sicurezza direi perché la Fondazione si trova in Gran Bretagna). Mentre, se volete un efficientissimo insetticida naturale, potete costruire voi stessi un rifugio per pipistrelli (una bat box) e per questo vi rimandiamo all’opuscolo creato dal Museo di Storia Naturale di Firenze che qualche tempo fa in collaborazione con l’Unicoop promosse un eccellente campagna di sensibilizzazione.

Ricordiamo che i pipistrelli non sopravvivono in ambienti contaminati, perché sono delicatissimi, sono un ottimo deterrente contro gli insetti nocivi e fastidiosi, non portano malattie, si creano piccole famiglie (fanno un solo cucciolo all’anno), sono simpatici e soprattutto… non sono cugini dei vampiri.

Salviamo i pipistrelli e salveremo il pianeta!

Ci piace


Ci piace la notizia che abbiamo letto sulla Tribune de Geneve  del 30 maggio scorso.

Stop alle frontiere per i cetacei. Aboliti gli spettacoli coni delfini, il Consiglio Nazionale svizzero ha deciso di vietare l’importazione di tutti i tipi di cetacei come i delfini, le  orche ammaestrati usati nel delfinaio svizzero di Connyland. E’ un buon inizio  e un riconoscimento a difesa degli animali.

Mangia… che ti passa!

Quando penso “a casa” mi accorgo di farlo in differenti modi: innanzitutto il mio pensiero va sempre ai cari che non vedo da tempo, poi mi capita di pensare a quanto è difficile parcheggiare in centro, a quanto è infinitamente più facile scambiare quattro chiacchiere anche con chi non si conosce, a quanto sono fortunata a non dover patire l’afa soffocante di quei giorni d’estate in cui il cielo si trasforma in una cappa lattiginosa, pensieri che, come le onde, vanno e vengono, e si focalizzano su persone, situazioni, sensazioni, ma raramente mi è capitato di pensare “a casa” provando semplicemente nostalgia per i luoghi, forse perché da dove vengo tutto è uniformemente piatto…

Ho sempre ritenuto, dunque, di non provare nulla per i posti in cui ho vissuto gran parte della mia vita, anzi in fondo di non apprezzarli affatto, ma ho sentito una fitta al cuore rileggendo la premessa de La chimera di Sebastiano Vassalli, intitolata Il nulla, in cui l’autore coglie tratti del paesaggio padano che fanno parte della mia storia: “Soprattutto d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto, l’autostrada non c’è più, non c’è più niente. Nelle mattine d’estate, e nelle sere d’autunno, il nulla è invece una pianura vaporante, con qualche albero qua e là e un’autostrada che affiora dalla nebbia…”.

Un po’ di nostalgia di casa mia, sebbene piena di zanzare e risaie, mi è venuta e ho pensato di scacciarla cucinando una specialità, ma visto che il periodo estivo sconsiglia vivamente la preparazione della “paniscia” (risottone con verze, fagioli e salsiccia) mi sono concentrata su un dessert che ha un’origine medievale e che, poiché confezionato con prodotti costosi ed “esotici” veniva donato nelle grandi ricorrenze religiose: l’antico Dolce della cattedrale. Questo dolce é immensamente calorico, deliziosamente gratificante e soprattutto segretissimo, in quanto la ricetta originale, trovata in un manoscritto dell’Archivio Capitolare della città, è stata depositata presso la Camera di Commercio e appartiene alla Fondazione che l’ha scoperta (incredibile vero?).

Però con pazienza e qualche telefonata, la ricetta è stata ricostruita e il dolce può essere sfornato e gustato anche a casa, a questa ricetta “ricostruita” purtroppo sicuramente mancherà il famoso”ingrediente segreto”, ma assaggiato il risultato posso assicurarvi che non se ne sente la mancanza…

500 g di farina

10 uova

300 g di zucchero

300 g di burro

15 g di lievito vanigliato

scorza grattugiata di mezzo limone

300 g di albicocche secche

100 g di prugne secche

100 g di uva sultanina

una mela a cubetti (o anche una pera)

grappa di nebbiolo (sarebbe meglio, ma va bene anche il rum!)

è necessario mettere la frutta secca a bagno per almeno 24 ore nella grappa.

Dividete i tuorli dagli albumi e montate due bianchi a neve con dello zucchero (potrebbe servirvi dopo). Montate tutti i tuorli con lo zucchero finché diventeranno bianchi e spumosi, aggiungete 250 g di farina, il lievito vanigliato, il burro a temperatura ambiente leggermente montato, la scorza del limone e metà della frutta secca. Impastate energicamente (meglio se con un’impastatrice). Dopo che gli ingredienti si saranno amalgamati aggiungete i resto della farina e della frutta. Se la consistenza dell’impasto vi sembrerà troppo dura aggiungete i due bianchi montati a neve con lo zucchero.

Otterrete un impasto piuttosto consistente, cosa che garantirà alla frutta secca, durante la cottura, di non depositarsi sul fondo della teglia.

Mettete il composto in una teglia (26 cm) con i bordi abbastanza alti (ottime quelle che si aprono) imburrata e infarinata e cuocete lentamente per 30/40 minuti in forno con modalità non ventilato a 180 gradi. Il dolce si dovrà dorare.

Se ci riuscite aspettate 24 ore prima di mangiarlo, spolverizzatelo con zucchero al velo e, se ne avete voglia, servitelo con una crema leggera (deviazione dalla tradizione), sennò inzuppatelo semplicemente nel latte (decisamente nella tradizione). Proverete sicuramente quello che generazioni di fedeli hanno provato nel corso del tempo assaggiando questa specialità, che veniva offerta dai Canonici solo nelle festività importanti per condividere concretamente la gioia dei festeggiamenti.

Bene a sapersi, può sempre servire

Tutti stiamo già pensando alle vacanze estive. Per molti  di  noi che viviamo all’estero le vacanze sono anche un momento di rientro a casa; per altri sono un’occasione di viaggio e  di riposo. Attenti però ai souvenir. Ci sono convenzioni internazionali e leggi che proibiscono il commercio di tanti oggetti legati a specie in via di estinzione o al bisogno di proteggere flora e fauna dei paesi visitati e di quello ove si rientra.  La Svizzera non fa eccezione e punisce molto severamente chi introduce nel paese certe specie di vegetali in via d’estinzione e prodotti animali come pelli di serpenti, rimedi cinesi a base di corna di rinoceronte e cosi via.

Le multe sono salate e vanno dai 40.000 ai 100.000 franchi. Occhio anche ai prodotti alimentari per chi rientra da paesi non europei: alimenti come miele, latte, carne sono vietati. Per saperne di più si può consultare un sito http://www.bvet.admin.ch

Per scoprire  tante cose che si possono o non possono fare in Svizzera, oppure per trovare tanti consigli giuridici o giudizi su vari oggetti di consumo, abbiamo trovato un sito molto interessante: www.bonasavoir.ch