Perchè odio l’arte di Jeff Koons

Le opere di Jeff Koons sono presenti in questi mesi in Svizzera, alla Fondazione Beyeler, con una grande mostra a lui dedicata.

Consiglio di vederla, ma fate attenzione perché chi vedrà le sue opere per la prima volta potrà rimanerne affascinato o irritato. A me succede sempre di provare il secondo stato d’animo.

A dire il vero, il mio primo incontro con le sue opere è avvenuto a Venezia, alla biennale del 1990. Ero in compagnia di mio padre e alle Corderie mi trovai di fronte ad una grande scultura policroma, a grandezza naturale, che ritraeva l’artista stesso in un amplesso con la porno star Cicciolina, all’epoca sua moglie.  Avevo poco più di venti anni ma ricordo il senso di disagio e imbarazzo.
Oggi sono certa che la mia irritabilità nei suoi confronti non è più imbarazzo, ma rabbia. Perché so che questo artista americano, definito un’artista neo-pop, manipolatore dei mezzi di comunicazione, illustratore ironico della vita americana e del consumismo, ha fatto centro e le sue opere hanno colto appieno la nostra epoca.

Nel suo mondo ludico, di giochi e pupazzi giganti, leggo il fallimento dell’occidente, dove l’uomo ha messo al centro della sua vita l’apparenza e dove tutto è merce di scambio, per alimentare una macchina che produce ricchezza materiale. Non c’è sobrietà nelle opere di Koons, come non c’è sobrietà nella società in cui vivo. Allora davanti alle sue opere tutto è possibile, ci si ritrova come su una giostra: si vivono attimi intensi di svago in un caos quasi piacevole e anestetizzante.

Ecco perché odio l’arte di Jeff Koons: perché mi ricorda tutto quello da cui vorrei sottrarmi.

La mostra sarà alla Fondazione Beyeler  dal 13 maggio al 2 settembre. In mostra troverete molti dei suoi lavori e nel giardino della fondazione potrete ammirare la scultura monumentale composta di fiori intitolata Split-Rocker.

Life in the Slum

Ho un figlio che ama guardare il mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica… Lo guarda con i suoi occhi da adolescente e riesce a catturare aspetti della vita di tutti giorni, della natura, di tutto ciò che lo circonda attingendo al suo ricco mondo interiore, all’entusiasmo della sua età e grazie agli stimoli che, da ragazzo “fortunato” ha ricevuto e riceve quotidianamente. Ha aperto un blog che raccoglie le sue fotografie, possiede un bell’apparecchio fotografico e soprattutto ha la stima e l’approvazione di genitori fieri dei suoi interessi.

Per questa ragione sono rimasta affascinata da un’iniziativa di una onlus italiana che opera a Deep sea, slum di Nairobi, che si chiama AfrikaSi, la quale promuove e coordina programmi di assistenza sanitaria di base, alfabetizzazione e formazione, e con il contributo volontario di artisti professionisti e sponsor organizza eventi di sensibilizzazione e promozione della cultura africana.

Ciò che mi ha colpito, è la mostra inaugurata a Venezia l’11 maggio scorso, che si protrarrà fino a fine luglio, intitolata Life in the slum. Through our eyes, dove viene esposta l’opera di ragazzi dello slum che hanno realizzato fotografie del loro mondo, della loro realtà. A volte tragiche e drammatiche, a volte divertenti o commoventi, esse sono sempre piene di poesia e mostrano la vita nello slum attraverso gli occhi di chi la vive. Sebbene le immagini siano catturate attraverso una fredda lente di vetro, rimangono ricche del colore, dell’umanità, della vita dell’Africa.

Questa raccolta fotografica di 30 scatti, che approderà dopo Venezia in Turchia e infine negli Stati Uniti, è il risultato di una lunga e bella storia iniziata nel 2005 nello slum Deep Sea, una delle più di duecento baraccopoli che circondano la capitale del Kenya, grazie al coinvolgimento di Adriano Castroni, già fotografo di moda per Valentino e creatore dell’agenzia pubblicitaria TheSign.

In Africa Castroni ha creato con AfrikaSi il laboratorio Zinduka (in swahili “evoluzione”) in cui insegna ai ragazzi dello slum fotografia, grafica e sviluppo fotografico. L’obiettivo era di dare a questi ragazzi ancora prima di una professionalità una speranza nel futuro.

Il messaggio che arriva forte e chiaro da questa esperienza è che nonostante tutto anche i ragazzi delle baraccopoli di Nairobi, sebbene fra mille difficoltà hanno una speranza, una piccola possibilità di scelta che ci fa sperare in un futuro diverso almeno per alcuni di loro. Ciò che non hanno avuto per una coincidenza di nascita possono ottenerlo con tanto lavoro, determinazione e l’aiuto di persone come Castroni pronte a dare una mano gratuitamente, alimentando con la loro professionalità e dedizione quella scintilla creativa presente in tutte le nuove generazioni, anche le meno fortunate!

non mi piace

Sono belle le rose e i tulipani ma non possiamo dimenticare che in Italia  oltre 130 mila tonnellate di fiori arrivano dal Sud del mondo, dove vengono prodotte usando sostanze chimiche vietate dall’Organizzazione mondiale della sanità e sfruttando persone che lavorano a basso costo tra mille abusi.

Ditelo con i fiori: BASTA!

Son tutte belle le mamme del mondo

Sono tutte belle le mamme del mondo…diceva la canzonetta.

La mia, penso sia stata la più bella:

Occhi furbi come una lince, ma chiari come le cose buone. Nel suo corpo non c’era posto per le secchezze o per le aridità, il suo cuore era legato alla vita e riusciva a coglierne ogni giorno la bellezza, anche nelle cose più semplici.

Ho scelto per lei una linea che la rappresentasse: ovvero la linea curva.

È con quella che ha saputo accettare tutto quello che la vita gli ha portato, è quella che ha portato stampata sul suo volto, il suo dono per noi: la linea curva del sorriso.

Auguri e forza a tutte le mamme.

La fatica di vivere

A lungo mi sono chiesta se fosse il caso di pubblicare questo post e addentrarmi in una vera e propria «selva oscura», alla fine ho deciso di farlo, perché sono certa che in tanti, almeno una volta nella vita, ci siamo posti domande su questo argomento.

Fonte di ispirazione per queste riflessioni è stata la notizia, riportata e commentata da molti quotidiani svizzeri (quali Le Temps24 heures), che nel Canton Vaud, il 17 giugno prossimo, la popolazione sarà chiamata a votare una modifica della legge della Pubblica Sanità in materia di «assistenza al suicidio».

E sì, perché la Svizzera (pur vivendoci non ne ero a conoscenza, poiché come spesso accade per tutto ciò che riguarda l’ultimo viaggio, da brava italiana la prima reazione è sempre stata quella di «fare le corna» con, a seguire, la manifestazione del disinteresse più assoluto…) é il solo paese in cui l’assistenza al suicidio – per quelle persone che sono affette da malattie mortali, la cui speranza di vita é inesistente e ne fanno richiesta nel pieno delle loro facoltà mentali o attraverso il loro testamento biologico (qui accettato) – é legale, rigidamente codificata e regolamentata da leggi federali e cantonali.

Voglio assolutamente cercare di essere super partes e spero di riuscirci, perché il mio intento non è quello di esporre il mio punto di vista, quanto piuttosto di suscitare una serie di interrogativi, che mi sembrano legittimi.

Innanzitutto la legge: la costituzione vaudese riconosce a tutti il diritto di morire in modo dignitoso.

E queste poche parole sono state tradotte nella legge di Pubblica Sanità concedendo agli ospedali la possibilità di somministrare la dose letale a chi ne faccia richiesta. Ciò non a cuor leggero, si intende. Il processo, finora, è stato lungo e laborioso, coloro che richiedono la soluzione finale sono sottoposti a una lunga serie di esami clinici e di colloqui con psicologi e assistenti sociali, solo laddove si ravvisa la concreta impossibilità di avviare nuove cure contro un male incurabile, quando il soggetto è realmente senza speranza, solo allora come ho detto, lo si aiuta al trapasso per alleviarne le pene.

Esistono però associazioni che hanno iniziato a donare la «buona morte» anche a coloro che la richiedono a prescindere da una situazione di malattia terminale. Persone affette da una serie di malattie fisiche non mortali, ma che rendono l’esistenza impossibile: artrosi deformanti, problemi di mobilità, cecità, incontinenza. O ancora soggetti con i mali dell’anima come le depressioni acute, che hanno via via perso la gioia di vivere, che sono rimaste sole e non vedono altra via d’uscita. Tutti mali che si stratificano gli uni sugli altri e che sottopongono i pazienti ad una presunta e inutile fatica di vivere e all’impossibilità di portare avanti un’esistenza dignitosa. Condizioni queste che toccano soprattutto un particolare tipo di soggetti: gli anziani.

Sotto la spinta popolare di diverse associazioni di malati di questo tipo si è giunti al referendum del 17 giugno, in cui viene chiesto di cambiare la legge in vigore, dando la possibilità di porre fine alla propria esistenza attraverso le organizzazioni di assistenza al suicidio anche nelle istituzioni che noi chiameremmo «case di riposo» e che in Svizzera sono le EMS, senza dover attraversare la lunga e dolorosa trafila degli esami clinici che la legge prevede, anche da parte di persone la cui vita non è in pericolo immediato.

Le domande a livello morale, etico, religioso che affiorano sono talmente tante che è inutile qui farne una lista. Mi voglio limitare a suggerirne alcune, non necessariamente quelle “giuste” o condivisibili.

Innanzitutto è proprio vero che come ognuno ha il diritto di vivere come vuole, ha anche il diritto di porre fine alla propria esistenza, quasi ricorrendo poi ad uno stratagemma come quello del suicidio assistito?

Credo sia lecito chiedersi, insieme a B. Kiefer, capo redattore della rivista medico scientifica svizzera e membro della Commissione nazionale di etica, se « l’allargamento di questa zona grigia (fatta di pazienti non in pericolo di vita ma che non desiderano più vivere) non è forse fare il gioco di una società dove bellezza, giovinezza e performance sono divenuti i valori principali?». Non può significare l’anticamera di qualcosa di molto più grave come la cancellazione ad esempio degli errori di una natura che può essere insensibilmente matrigna?

E ancora: «prima di rispondere al desiderio di morte, non bisogna forse domandarsi se alcune di queste persone, debitamente aiutate (cosa che costa non solo in termini monetari), possano ritrovare un senso alla propria esistenza malgrado i problemi?».

E mi fermo qui… spero se ne riesca a parlare

A margine di tutto ciò… quanto è difficile parlare di morte e quanti eufemismi ho usato in queste poche righe (trapasso, buona morte, soluzione finale ecc.) per aggirare la parola morte, tout court, così dura, così inquietante, così definitiva.

Battelli a vapore: la parata sul lago Lemano

Forse non l’avrei mai considerata molto interessante la parata dei battelli a vapore, se non mi fossi trasferita dall’Italia nei pressi del lago Lemano.  E invece, fin dalla prima volta che li ho visti, mi hanno affascinata e incuriosita, questi vecchi battelli con la ruota a pale laterali della Compagnie Generale de Navigation (CGN), fondata nel 1873.

Domenica  20 maggio si terrà una festa a loro dedicata. Saranno in cinque  e navigheranno lungo le coste, fermandosi ai porti di Losanna, Morges , Saint-Prex, Nyon, Rolle e Ginevra. Il battello più antico che vederemo sarà  il Montreux, costruito nel 1904, mentre il più giovane è datato 1927 e si chiama Rhone.

Chi volesse saperne di più e confrontare questi battelli ancora in servizio con il battello più antico conservato al mondo, potrebbe andare a visitare  il Museo dei trasporti di Lucerna.  Questo museo,vale una gita, sia per ciò che espone sia per vedere il suo edificio, costruito nel 2009 dallo studio di architettura Gigon e Guyer di Zurigo. Il museo è nuovissimo, molto originale con la sua facciata ornata da centinaia di ruote, cerchioni, volanti eliche e oggetti  di ogni tipo legati al mondo del trasporto.  “ Questo guazzabuglio di elementi riciclati rappresenta una sorta di omaggio alla mobilità meccanicizzata” ha affermato l’architetta Annette Gigon.

Ebbene, dentro al museo potrete  ammirare il piccolo Rigi, un battello che in origine aveva lo scopo di trasportare merci da Lucerna a Fluelen, tappa per i commerci tra Basilea e Milano. Diventato turistico nel 1863, trasportò  anche Thomas Cook in occasione del suo primo viaggio attraverso le Alpi svizzere.

Lasciamoci trascinare dalla corrente del lago e andiamo sulle sponde del Lemano ad ammirare i battelli di un’epoca che non esiste più. Per maggiori informazioni sulla parata potete guardare su www.cgn.ch

Una vita per la musica. Il magico mondo di John Peel

Chi è John Peel? A noi che siamo di lingua italiana il nome dice poco, ma chi è di lingua inglese sa perfettamente di chi sto parlando.

John Peel è stato presentatore radiofonico, disk jockey e giornalista, una delle voci più conosciute della BBC e più influenti della musica Inglese dal 1967 all’anno della sua morte il 2004. Insomma John Peel è stata una leggenda della musica. I suoi programmi radiofonici hanno ospitato i nomi più famosi del panorama musicale non solo anglosassone per decenni.

Dopo la sua morte, la famiglia ha realizzato uno dei suoi progetti creando il John Peel centre for creative arts, il cui scopo è offrire l’opportunità a un sempre maggior numero di membri della comunità di farsi coinvolgere in attività ed eventi culturali, in modo che tutti partecipino e possano godere dei benefici dei propri sforzi artistici e supportare gli sforzi degli altri.

Il secondo interessantissimo progetto che porta il nome di John Peel è assolutamente geniale! Andate sul sito ed entrate in THE SPACE in basso a sinistra, vi troverete nello studio del disk jockey, ancora in fase di costruzione, ma già per la maggior parte interattivo, e divertitevi a entrare in tutte le aree di interesse di questo eclettico personaggio: potrete accedere ai suoi video, alle sue sessions, alle foto, agli show radio, al blog di John Peel, ma quello che mi ha fatto letteralmente impazzire è la possibilità di accedere al suo incredibile, fornitissimo, memorabile archivio di dischi in vinile!!!

Archivio contenente oltre 26000 LP e 40000 45 giri che, secondo il progetto, potranno essere “consultati” tutti attraverso la piattaforma Spotify (attualmente non ancora attiva in Italia, ma se scavate con attenzione ci sono modi per attivarlo ugualmente!!!!), dunque musica fruibile a prezzi ridicoli, ma che musica!

I grandi classici, dischi introvabili, band dimenticate, il rock storico, ma anche musica etnica, soul, jazz, pezzi rari ce n’è per tutti, tenendo presente che come disk jockey ha attraversato gli anni gloriosi della musica inglese. Di tutti i dischi è riportata la copertina e la lista dei pezzi contenuti. Commovente!

Ma bisogna avere pazienza… per ora si può accedere alla sola lettera A… in effetti a pensarci il lavoro è titanico! Noi, intanto, fiduciosi aspettiamo!

Verso una architettura (moderna e funzionale). 125 anni dalla nascita di Le Courbusier

Quest’anno si celebrano, a La Chaux de Fonds, in Svizzera, i 125 anni dalla nascita di Le Courbusier.

Le Courbusier (Le chaux-de Fonds, Svizzera 1887- Roquebrune-cap-Martin, Francia 1965) è stato architetto, urbanista ma anche artista e uomo di lettere: una delle figure che più ha influito sulla cultura e sul pensiero  del XX secolo. È lui che ha  rivoluzionato il modo di vivere e di concepire le abitazioni e la città. Credeva in un’architettura razionale, che seguisse i principi del “funzionalismo”.  La casa viene da lui reinterpretata, facendola divenire uno strumento, una “machine à habiter”.  L’ambiente interno è pensato e redistribuito  secondo le funzioni dell’abitare moderno; le forme sono semplici, squadrate, “pure” con gli spazi interni che presentano una distribuzione aperta. Le Courbusier immagina e realizza nuove case per la città moderna.  Come urbanista, ha lavorato a Parigi con un progetto (1931 Plan Voisin) che voleva  coordinare i rapporti tra la rete viaria di comunicazione e i luoghi di lavoro e quelli di residenza, riducendo le distanze tra questi ultimi.  Pensa di costruire in altezza, sostituendo le case singole con i palazzi (Immeubles-Villas). Nel 1914 mette a punto un progetto  che si basa sull’’utilizzazione standardizzata degli elementi prefabbricati.

A Ginevra nel 1927  aveva presentato un proprio progetto, nell’ambito del concorso  per il  Palazzo delle Società delle Nazioni; ma non venne selezionato. Nella città però realizzerà comunque, nel 1931-32, l’immobile Clartè:  un palazzo di otto piani, con 48 appartamenti.

Nel dopoguerra il suo linguaggio è meno rigido, si libera dalle sole forme geometriche pure e inserisce nei progetti forme antropomorfe, dove trapelano sfumature liriche ed emotive assieme a influenze surrealiste. Questo lavoro sfocia, negli anni Cinquanta, nella realizzazione della Cappella di Notre –Dame-du Haut, a Rochamp (1950-51).  Una chiesa pensata in calcestruzzo armato, formata da un’unica navata di forma irregolare con ai lati 3 piccole cappelle indipendenti, che terminano in tre campanili di forma semicircolare. Il tetto sembra una vela appoggiata, non sostenuta dai muri della chiesa. Per le forme e per i giochi di luce creati dall’architettura all’interno della chiesa,  vale assolutamente la pena visitarla  (Rochamp è nella provincia di Belfort in Francia, all’incirca a 250 chilometri da Ginevra).

A chi, invece, volesse fare più gite dedicate a Le Courbusier, sempre in Svizzera segnaliamo la Maison de l’homme Pavillon d’Exposition ZHLC a Zurigo, edificato nel 1963 come casa di Madame Heidi Weber e diventato in seguito un museo d’arte e un luogo per seminari e convegni.

Quest’anno la città di Chaux de Fonds ha in programma una serie di manifestazioni per ricordare la sua figura. La città ospita una delle sue prime opere: La Maison Blanche, da lui realizzata per i suoi genitori e ora considerata monumento storico del Cantone di Neuchatel. Durante le manifestazioni sarà possibile visitarla, anche perché vi si  terranno esposizioni, visite guidate, proiezioni sul grande architetto. Il Musée des Beaux arts dei Chaux de Fonds organizza per l’occasione una mostra dal titolo Le Courbusier et la Photographie (30 settembre-13 gennaio). Il 6 ottobre, giorno della nascita di Le Courbusier, saranno proiettate delle immagini e dei video sulle facciate dei palazzi della città. Per consultare il programma completo, cliccate  www.lecourbusier2012.ch

… ci piace

… il 9 maggio prossimo sarà la Festa dell’Europa, infatti proprio il 9 maggio 1950, Robert Schuman presentava la proposta, nota come “dichiarazione Schuman”,  di creare un’Europa organizzata.

Oggi, che l’idea di Europa si è decisamente appannata, questa giornata dovrebbe avere una maggiore eco per ribadire e sottolineare quei valori di pace e di solidarietà che i paesi che fanno parte dell’Unione europea hanno deciso di condividere e conservare.

In ogni paese della comunità europea si festeggerà in modi diversi. A Roma dal 3 al 19 maggio si tiene il Festival dell’Europa, evento ricco di appuntamenti musicali e culturali, nell’ambito del quale l’8 maggio Il Maestro Uto Ughi terrà un concerto nella Piazza del Campidoglio, inoltre per il 19 maggio è prevista la Notte bianca dei Musei d’Europa… peccato non esserci!

Il Babà… un gran signore!

Nella nostra mente rimangono impressi vividamente non solo persone, luoghi, fatti o personaggi, restano indelebili anche gusti, colori, profumi o situazioni (quali lo sciabordio del mare o il frinire delle cicale o ancora il rumore del vento fra gli alberi). I ricordi che vengono scatenati da queste sensazioni sono tanto più profondi quanto più esse sono intense, e hanno la capacità di riportarci indietro nel tempo, spesso direttamente alla nostra infanzia e al suo mondo magico.

Così, non posso stappare una gassosa, che il rumore del gas in uscita mi riporta direttamente al chiosco sul lungomare, dove il mio papà nelle sere di luglio ci comprava il succo di limone emulsionato con acqua ghiacciata, zucchero e bicarbonato; oppure non posso sentire l’odore del giornale appena stampato, perché immediatamente mi ritrovo sulla spiaggia, in fila per comprare la «zeppola» appena fritta, abbondantemente passata nello zucchero e cannella e appoggiata proprio sul giornale del mattino per farle «sudare» tutto l’olio in più…

… scusate, mi rendo conto che tutto ciò è molto «proustiano», ma mi serve per introdurre un argomento al quale tengo molto.

Se, infatti, sento nell’aria il classico profumo di dolce appena sfornato, il ricordo che si staglia chiaro e gigante nella mia mente è il babà! Lucido, di color ambrato, a forma di grosso porcino, con o senza crema, con o senza ciliegina, adagiato mollemente ad aspettarmi nella sua carta arricciata e piena di delizioso sciroppo di zucchero e rhum.

Per anni mi è stato detto (la mia prodigiosa prozia, seguita da mia madre e dalle sue sorelle) col sorrisetto agli angoli delle labbra: «é inutile cercare di rifare il babà a casa… tanto non verrà mai», ed io, ligia al divieto famigliare, ho sempre badato a comprarlo in pasticceria.

Ora però che sono fuori dall’Italia il babà dove lo trovo? Allora mi sono messa di buzzo e ho iniziato a provare tutte le ricette sulle quali sono riuscita a mettere le mani (libri, internet, una cugina lontana grande cuoca) fino a trovarne una che, almeno in parte, mi riportasse al delizioso sapore conosciuto.

Che gli avi mi perdonino per ciò che sto per dire !

In effetti, la ricetta che mi ha dato finora i migliori risultati non arriva da qualche voluminoso compendio di cucina napoletana o dalla bocca di un vecchio pasticcere che prende un po’ di fresco nel vico, ma… (ahimè) dal Mastering the art of French Cooking di Julia Child (sì sì proprio quella del film Julia and Julia interpretato da Meryl Streep).

Del resto, per placare le mie ansie, posso dire che il babà pare non essere stata neppure un’invenzione napoletana, infatti, risalgono alla metà dell’Ottocento circa le prime fonti partenopee, mentre notizie di un dolce simile ci arrivano addirittura dalla lontana Polonia. Il babka ponczowa, era, infatti, una specie di ciambellone che veniva riempito di crema, poco dolce e un po’ soffocante, che fu rivisitato dal sovrano Stanislao Leszczyński, che si dilettava di cucina, il quale, per renderlo un po’ più appetibile, lo «bagnò» per la prima volta con una miscela di Tokaj e zucchero!

Dunque vi passo la ricetta di Julia, aggiungendo qualche avvertenza preliminare:

Il babà è un gran signore e come un gran signore vuole essere trattato. Lavoratelo in un luogo caldo, ponetelo a crescere in posto lontano dalle correnti d’aria. Una volta cotto aspettate che l’umidità della pasta venga completamente eliminata prima di imbibirlo dello sciroppo. Può essere congelato facilmente e con successo, ma prima di essere inzuppato di sciroppo lo dovete far scongelare nel forno a 150 gradi per 5 minuti.

Che altro ? Ah, sì seguite le dosi (per 12 babà) e i tempi di crescita e cottura con esattezza. Darò la ricetta con le misure americane (tazze, cucchiai da tavola ecc.) perché non mi azzardo a farne la conversione (su internet si trovano programmi appositi e se non avete i misurini americani potete dilettarvi a convertire le dosi).

Pronti?

4 Tb di burro

1 Tb di lievito di birra fresco (che profumo!)

3 Tb di acqua calda

2 Tb di zucchero

un pizzico di sale

2 grandi uova

1 cup e 1/3 di farina

Mescolate l’acqua calda con il lievito finché si sia sciolto bene. Aggiungete le uova, lo zucchero e il pizzico di sale e lavorate finché tutto sia ben amalgamato con un cucchiaio di legno. Aggiungete la farina e continuate a mescolare. Ora, dopo che l’impasto è ben amalgamato, con la mano a coppetta continuate a impastare in modo circolare, poi staccate l’impasto dalle pareti, mescolatelo e sbattetelo violentemente contro di esse, ripetendo questa operazione, che sembra scema ma é fondamentale,  per almeno 5 minuti. All’inizio l’impasto è appiccicoso e si incollerà alle dita, ma mano a mano che procedete con questa operazione si staccherà sempre più facilmente da dita e recipiente. Una volta arrivati ad una consistenza che vi permetta di tenere l’impasto in mano (senza cioè che scivoli via…) fatene una palla, con un coltello fate un’incisione leggera a croce e deponetelo in un contenitore, ricoperto con un panno pulito in un luogo caldo (fra i 25 e i 45 gradi) per 1 ½ – 2 ore.

Una volta cresciuto l’impasto (sarà enorme !) gentilmente con una mano staccatelo dalle pareti e dividetelo in 12 stampini da babà (se non li trovate vanno bene anche quelli per i muffin, il risultato finale sarà però un po’ diverso) già spalmati di burro e infarinati. Ora ai babà occorrono altre due ore di lievitazione, ognuno nel proprio stampino, nello stesso luogo caldo e senza sbalzi di temperatura e correnti d’aria, fino a che la pasta non arrivi quasi al bordo, prima di essere pronti alla cottura che dovrà essere breve ma intensa (250 gradi per 15 minuti).

Ce l’abbiamo quasi fatta !

Mentre i babà cuociono preparate lo sciroppo al rhum con

2 cup di acqua calda

1 cup di zucchero

½ cup di Rhum (quello scuro, se vi piace un po’ piu alcolico potete aggiungere altro rhum)

In un pentolino fate scaldare lo sciroppo finché tutto lo zucchero sarà sciolto. Togliete dal fuoco e fate raffreddare.

Quando i babà saranno cotti aspettate che si raffreddino e poi procedete al bagno nello sciroppo.

Se tutto è andato bene il risultato sarà dolcetti morbidi e spugnosi, ma sodi (tanto che se li strizzate ritorneranno alla loro forma) che affogati nel liquido si gonfieranno deliziosamente.

Alla fine potrete spennellarli con una miscela di marmellata di albicocche e acqua, che li renderà lucidi, ma io preferisco sbranarli così.