A proposito del digiuno…

Può apparire bizzarra la scelta di inserire questo post nella categoria “che gusto c’è” dal momento che vogliamo trattare di un argomento che è all’opposto del cibo: il digiuno. Abbiamo deciso di inserirlo qui perché il digiuno può essere inteso non solo come un dovuto riposo fisiologico dell’organismo, che attraverso di esso si depura da tossine e veleni, restituendo un rinnovato gusto per il cibo, ma anche come una possibilità di controllo su se stessi per evitare di divenire schiavi del superfluo.

Sul digiuno desideriamo fare una riflessione che non si concentri sui motivi dietetici o pseudo tali che ci spingono a patire la fame abbracciando improbabili diete, ma neppure sul suo tragico contrario, la mancanza di cibo dovuta a povertà o carestia, e neppure sul digiuno come arma di contestazione o protesta.

Vorremmo focalizzare la nostra attenzione sul digiuno che attraversa trasversalmente culture e religioni ed è presente fin dalla notte dei tempi nella storia dell’umanità, senza dare giudizi sulla bontà o meno di questa pratica, ma semplicemente tratteggiandone i caratteri.

Partiamo dunuqe da una definizione che ne chiarisce il significato, con digiuno voglio intendere quella “astinenza temporanea totale o parziale dal cibo, per lo più per scopi religiosi e con diverse motivazioni” ( M. Schnedider, voce Digiuno, in Nuovo dizionario delle Religioni, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993). Il digiuno infatti ha acquistato a seconda della latitudine delle popolazioni, delle loro credenze e della loro cultura, funzioni e significati differenti.

La prima e più antica è la funzione APOTROPAICA del digiuno, cioè attraverso la sua pratica si può tenere distante o addirittura annullare l’influenza maligna. Con il digiuno infatti ci si protegge da emanazioni dannose di cibi e bevande e con esso si riesce a scacciare la possibilità di rimanere vittime di eventi catastrofici.

Altra funzione del digiuno è quella CATARTICA: esso rappresenta la purificazione del corpo prima o dopo azioni particolarmente importanti. Ci sono poi la funzione ETICA – digiuno come sacrificio, espiazione o automortificazione – ed ESTATICA – digiuno come rafforzamento di quelle energie che mettono l’individuo a diretto contatto con la divinità. Infine il digiuno può essere la manifestazione esteriore del LUTTO, come accadeva tradizionalmente fra gli antichi egizi.

Ancora, esso può essere praticato in gruppo (il Ramadan) o da soli (per purificarsi dai peccati), in tempi e giorni stabiliti (la Quaresima) o in modo estemporaneo come atto di umiltà e penitenza. Infine, in molte culture e religioni, di fronte all’estremizzazione delle forme di digiuno si è giunti a consigliarne una “interiorizzazione” in forma di “preghiera attraverso il corpo”.

Che sia rituale, dietetico, disintossicante il digiuno da sempre è presente nella storia dell’uomo.

Donne fenomeni o niente?

O i figli o il lavoro questo è il titolo del nuovo libro di Chiara Valentini edito da Feltrinelli. Tratta della precarietà delle giovani italiane che lavorano e decidono di avere un figlio. La giornalista ha provato a confrontare la condizione delle donne italiane con quella donne di altri paesi europei come  Francia, Germania, Svezia.

Dalla sua analisi risulterebbe che, specialmente in questo momento di crisi dell’economia, la condizione della donna sembra tornata  a quella del XIX secolo, quando le ragazze erano costrette a nascondere la gravidanza per non perdere il posto di lavoro.

Se avete letto il romanzo di Susan Vreeland Una ragazza da tiffany, un romanzo storico ambientato  nella New York della fine del XIX secolo, vedrete che la protagonista, Clara Wolcott Driscoll, artefice delle più belle lavorazioni dei vetri della Tiffany Glass non può, per regola del laboratorio, prendere marito né tantomeno aspettare un figlio.

Ebbene il romanzo non è poi così lontano dal mondo italiano odierno. Come emerge dal lavoro della giornalista Valentini, sembra provato che ci siano datori di lavoro che, prima di assumere una donna, le facciano firmare la lettera di dimissioni, nel caso dovesse entrare in maternità. E’ come un guerra silenziosa, che si pratica contro le donne e che oggi, con la crisi, sembra addirittura acuirsi. Oltre a questo, il libro denuncia il numero troppo esiguo di asili nido. Un fenomeno allarmante, in particolare al sud (per fare un esempio, in tutta Messina ne risultano solo 3). Segnala anche un quadro normativo ancora carente nel disporre sostegni alla famiglia. La ministra Fornero ha appena promosso una norma per permettere agli uomini il congedo per paternità. Questa iniziativa è lodevole, ma è ancora ben poca cosa se si  pensa si risolve, in tutto, in 3 giorni di congedo. Come capite, non è gran cosa, anche perché si prevede una sperimentazione di tre anni prima di far confermare questa norma.

Ma è davvero necessario essere fenomeni per poter vivere una vita di soddisfazioni familiari e professionali? Mica tutte riusciamo ad essere come la frenetica e bellissima Jessica Parker nel film “Ma come fa a fare tutto”? 

A Lugano, sulle vette del monte Tamaro una gita tra arte e natura

Una decina di anni fa ho fatto una gita estiva in Svizzera. Da sempre in mezzo all’arte, andai a visitare un luogo suggestivo che non avrei più dimenticato. Si tratta della chiesa di Santa Maria degli Angeli, sulle pendici del monte Tamaro, vicino a Lugano. Questa chiesa ha veramente qualcosa di straordinario, sia per dove è collocata sia per come è stata concepita dall’architetto svizzero Mario Botta, che qui ha lavorato in piena sintonia con l’artista italiano Enzo Cucchi.

Per arrivare alla chiesa occorre prendere la cabinovia che mena all’Alpe Foppa, a circa 1500 metri di altitudine. La costruzione è stata inaugurata nel 1996  e si nota subito in alto, a picco sul monte. E’ un luogo da non perdere perché è stata pensata staccata dalla montagna, come un belvedere sulla valle. In verità vi si arriva salendo più in alto, sul tetto, e poi scendendo dentro la chiesa stessa. Il tetto, oltre che da scalinata, funge anche da anfiteatro e offre punti di vista magnifici sulle diverse montagne del circondario.

Scese le scale, si entra all’interno della chiesa: di forma  semicircolare, strutturata a tre navate, ha al suo centro una piccola abside, inondata di luce intensa, con due grandi mani disegnate da Cucchi sulle sue pareti.

La chiesa ha 22 aperture poste a livello del pavimento, che consentono di ammirare lo splendido paesaggio della valle sottostante. Nelle strombature dei muri, ha una serie di dipinti incisi da Cucchi attorno al tema di santa Maria degli Angeli.

Un’esperienza unica, la visita di questa chiesa; un modo contemporaneo di trattare il sacro che arriva dritto al cuore e alla mente. Il luogo, poi, è anche molto apprezzato da chi ama camminare sui monti, perciò se  potete trattenervi di più potete fare la traversata Monte Tamaro-Monte Lema(circa 4 ore). Io non l’ho fatta, ma dicono che sia facile ed accessibile a tutti: mi piacerebbe provarla.

Tutto in famiglia

Dal video di Bill Viola, The Greeting, 1995

Sono reduce da una breve vacanza in famiglia, che mi ha visto condividere con mio padre, fratelli e nipoti un evento speciale che riassume tutta la vita dei miei genitori.  Così, con la mente a  ciò che ho vissuto e forse anche per stemperare le emozioni, sono andata a rifugiarmi in un libro e ho scelto  Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Sono tornata a questo libro perché, anche se parla di una generazione precedente a quella dei miei genitori,  il modo di raccontare i  luoghi, i fatti e le persone mi richiamano situazioni e  vissuto della mia famiglia.

L’autrice, in una avvertenza posta a mo’ di prefazione,  dice che ciò che ha descritto “non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune , la storia della mia famiglia”. E così ci parla della sua casa paterna, del padre, della madre e dei fratelli, della vita matrimoniale e della guerra. L’autrice dice di aver riportato ciò che ha sentito e visto attorno a sé. In verità, in Lessico famigliare, si leggono le sensazioni, le cronache e gli avvenimenti di ogni famiglia, compresi i problemi, i rancori e le incomprensioni. Nel libro è forte il suo legame con la madre e mi ha colpito come abbia ben saputo descrivere la differenza delle relazioni instaurate con essa da lei e dalla sorella maggiore Paola: da un lato (l’autrice) un rapporto improntato all’aspetto materno e protettivo, dall’altro (la sorella) una relazione di parità.  Tutto scorre nel libro, si susseguono  le fasi della vita e anche le relazioni con la famiglia cambiano; come quando l’autrice,  sfollata in Abruzzo con i figli, al momento dell’armistizio riceve una lettera dalla madre, che le dice di non sapere come fare per aiutarla. Lei scrive: “ pensai allora per la prima volta nella mia vita che non c’era per me protezione possibile, che dovevo sbrigliarmela da sola. Capii che c’era stata sempre in me, nel  mio affetto per mia madre, la sensazione che lei m’avrebbe, nelle disgrazie protetto e difeso”.

Il suo libro per me  è come una strada dentro i grovigli della famiglia e ogni volta mi stupisce come la sua scrittura ha saputo dipanarli in modo semplice e leggero; ma in realtà tocca così in profondo i rapporti famigliari che in ultimo  tutti ci sentiamo un po’ parte della realtà che descrive.

Il dolce di Pasqua: la Pastiera napoletana

Siamo a Pasqua? Allora recuperiamo qualche antica tradizione pasquale. Essendo italiani, la migliore tradizione che possiamo recuperare è quella culinaria, che ci assicura una forte identità in tutto il mondo.

Ecco perché oggi vi voglio dare la ricetta della Pastiera napoletana. Già proprio quella che fino a quando mi trovavo a casa producevo a vagonate con la mia mamma. Ricordo infatti che la settimana prima della Pasqua BISOGNAVA “fare la pastiera” e parenti e amici l’aspettavano con ansia, tutta bella impacchettata nella carta trasparente con qualche ovetto di cioccolata insieme al fiocco giallo!

La Pastiera è un dolce tipico partenopeo e come tutte le leccornie tipiche ha una storia antica ed intrigante.

La più antica parente della Pastiera moderna forse fu una focaccia rituale dell’epoca di Costantino che richiama l’offerta che i catecumeni  facevano nella notte di Pasqua portando in processione latte e miele dopo essere stati battezzati.

L’attuale ricetta nacque probabilmente in convento. E pare che le suore del Convento di San Gregorio Armeno fossero vere e propri maestre nel confezionamento del dolce. Frutto della simbologia pasquale della Resurrezione la Pastiera raccoglie in se elementi con un profondo significato religioso: la ricotta bianca simbolo di purezza, i germogli di grano simbolo della rinascita dopo l’inverno, le uova anch’esse simbolo di nuova vita, profumi e spezie naturalmente dall’Asia.

La tradizione vuole che la Pastiera sia confezionata nella settimana che precede la Pasqua, al massimo entro il Giovedì Santo e guai a mangiarla prima della Domenica di Pasqua, infatti gli ingredienti e i loro profumi non sarebbero pronti… cioè i loro aromi non avrebbero ancora sprigionato il meglio di sé e contribuito a rendere questo dolce l’armonia di sapori che molti conoscono.

Naturalmente il giorno di Pasqua la Pastiera si deve mangiare direttamente dal tradizionale “ruoto” (io e la mia mamma avevamo adottato le teglie di alluminio usa e getta) perché la pastiera è un dolce delicato sotto tutti gli aspetti: richiede rispetto non può essere tolta dal recipiente in cui è stata cotta si rischia di spappolarla irrimediabilmente.

La ricetta in realtà è abbastanza semplice, sebbene un po’ lunga, la difficoltà vera è quella di reperire il GRANO COTTO, quell’ingrediente che rende questo dolce unico e irripetibile (quando si morde la crema di ricotta e i denti incontrano la delicata resistenza dei chicchi di grano, infatti, alcuni affermano di aver sentito musica celestiale!), che in realtà si può anche fare da soli ma che normalmente si trova in vasetti da 400/500 grammi (ormai grazie ad Internet immagino che si possa trovare ovunque).

Essendo praticamente una crostata è necessario prima di tutto confezionare il guscio che accoglierà la crema di ricotta e grano e fare una bella e morbida pasta frolla (ognuno ha la propria ricetta, con più o meno zucchero, con un cucchiaino di lievito oppure no insomma sbizzarritevi). una volta finito di impastare prendete la palla di pasta frolla e lasciatela riposare.

Ora se intanto avete trovato il grano cotto munitevi di

400 g di ricotta fresca (sarebbe meglio quella di pecora, saporita e asciutta, ma accontentavi di quello che trovate)

400 g di zucchero

400 g di grano cotto

6 uova

aroma fior d’arancio in gocce

buccia di un limone

50 g. di canditi misti (ma se li soffrite non metteteli!)

un pizzico di sale

un bicchiere di latte

E ora si inizia.

Innanzitutto aprite il vasetto di grano e mettetelo in un pentolino con il bicchiere di latte la scorza di limone e i fiori di arancio (questa è una variante di famiglia, ma fidatevi!). Lasciate scaldare dolcemente il tutto. Setacciate intanto la ricotta (setacciate non schiacciate perché in questo modo diventa una vera e propria crema). Dividete i rossi dai bianche delle uova. Montate lo zucchero con il rosso delle uova finché si gonfi di aria e diventi bianco (che fatica! se avete delle fruste elettriche usatele!). Unite ricotta, rossi delle uova montati con lo zucchero e i bianchi montati a neve ferma. A questo punto, dopo aver atteso il raffreddamento del grano, incorporatelo nell’impasto di ricotta. Aggiungete (se vi piacciono) i canditi (io non i metto perché figli e marito non li amano). Niente paura se il composto risulterà un po’ liquido (ma non troppo). Si solidificherà in forno.

Versate tutto nel guscio di pasta frolla che avrete tirato a circa mezzo centimetro e posizionato il una teglia tradizionalmente rotonda (ma non importa la forma) nella quale cuocerete la Pastiera. Decorate la superficie della Pastiera come fareste con una crostata, incrociando le strisce di pasta frolla che vi è avanzata. Mettete poi il dolce in forno preriscaldato a 180° per un’ora.

Una volta cotta aspettate che sia fredda e spolverizzatela con abbondante zucchero al velo… e mi raccomando mangiatela non prima di Pasqua.

Tanti auguri!

Si spegne signori si chiude. L’era della diminuzione

Non abbiamo ancora letto questo libro ma ci ha incuriosito e in attesa che ci arrivi dall’Italia ve lo mostriamo:

Nell’introduzione si legge:

(…) Dopo aver stravinto la competizione per la conquista del cibo e dello spazio, dopo essersi moltiplicata alla follia e aver raggiunto livelli di benessere straordinari consumando a suo piacere quasi tutto il mondo, la specie umana decide di non crescere più, disponendosi quasi disciplinatamente alla diminuzione.

Una rivoluzione che il libro rivela e interpreta con grande originalità e con un linguaggio denso e suggestivo, ma sempre con rigore epistemologico e con un risvolto ambientalista preciso: come se la salvezza del pianeta fosse un compito della specie umana o, al contrario, dipendesse dalla liberazione del suo peso eccessivo sul mondo. Liberazione, fine di futuro in sé, fine della storia forse anche, perché la giostra questa volta non si limiterà a farci discendere e salire, noi e i nuovi passeggeri, ma si svuoterà e, alla fine, inesorabilmente si fermerà e non salirà più nessuno (si spegne, signori, si chiude).

Non sappiamo se davvero  stiamo per spegnerci, chi può dirlo? però nel frattempo siamo noi che possiamo SPENGERE LA LUCE  per un’ora, ricordate?  il 31 marzo prossimo possiamo aderire campagna del wwf  L’ora della terra.  Spengiamo la casa per un’ora, più siamo più la Terra respirerà e ci stupiremo che un piccolo sforzo avrà un grande effetto.

Finalmente finita la guerra… dei conigli dorati!

È stata dura. Decine di coniglietti dorati verranno sacrificati per la causa? Scorreranno fiumi di cioccolato? Triste, sì, ma la guerra finalmente è finita!

È del 26 marzo 2012, poche settimane prima della Pasqua, il verdetto definitivo sulla causa intentata dalla Lindt & Sprüngli contro la Hauswirth. La parola fine è stata finalmente scritta su questa bizzarra vicenda svizzera, denominata da tutti i giornali “la guerra dei coniglietti dorati”.

Si è trattato di una causa sostenuta dal colosso del cioccolato Svizzero di Zurigo Lindt & Sprüngli contro un piccolo cioccolatiere austriaco, Hauswirth, colpevole di aver prodotto, vestito e commercializzato coniglietti di cioccolato in tutto simili a quelli prodotti fin dal 1953 in Svizzera.

Il “Gold Bunny” Lindt, buono buono buono e, sì, in effetti anche carino (ma in fondo è un pezzo di cioccolata!) diventato famoso in tutto il mondo e prodotto da decenni dal colosso svizzero era stato “clonato” dalla casa austriaca, che aveva creato un prodotto quasi uguale, ma con qualche variante: in sostanza il fiocco patriottico rosso, bianco, rosso

Il contenzioso si trascina dal 2000 con alterne vicende. Finalmente la Corte di Cassazione Viennese ha dato ragione alla Lindt e segnato il destino del coniglietto austriaco che dovrà subire un completo restyling.

Sarà questa qui sotto la sorte del coniglietto Hauswirth, o basterà cambiargli l’abitino?

Apparizioni in città: la street art è arrivata e cambia il volto dei nostri quartieri

Keith Haring, 1989, Pisa

Erano gli anni Ottanta quando a New York gli artisti Keith Haring  e Jean-Michel Basquiat cominciarono a farsi notare per i loro lavori. Lavori insoliti, che non nascevano più negli studi: si trattava di immagini che coprivano i muri delle gallerie della metropolitana, gli stessi vagoni dei treni o spazi pubblici abbandonati. L’opera di questi giovani venne poi chiamata graffitismo. Haring e Basquiat morirono  entrambi molto giovani, ma questo filone d’arte scomparve. Lavorare liberi nelle città, senza condizionamenti, parlando a tutti, è divenuto sempre più spesso il desiderio di molti artisti. Oggi la pittura di graffiti si è evoluta in street art. Con la street art sono arrivate nuove tecniche: ora si usano non solo  le bombolette ma anche i nastri adesivi, i led, gli stencil, oppure si fanno vere e proprie installazioni. Ciò che non cambia, in questi nuovi artisti, rispetto ai pionieri di queste forme di espressione, è l’ attitudine a lavorare per strada, molto spesso di notte, quando nessuno li vede. Cercano quasi sempre luoghi dimenticati o abbandonati e con i loro interventi rigenerano spazi che i nostri occhi non vedrebbero mai.  Creano sui muri delle città. I lavori, non vengono mai firmati anche per paura di ripercussioni legali, dal momento che le opere sorgono in luoghi pubblici non autorizzati. E’ poi curioso vedere cosa succede a questi lavori quando l’artista diventa famoso: in quel momento si pongono sia il problema dell’autenticazione dell’opera sia quello della vendita. Non di rado le gallerie sono arrivate a comprare parte dei muri sui quali le opere sono state dipinte: siamo qui nell’ambito delle follie dell’arte contemporanea, alimentate dal desiderio di possesso dei collezionisti. Secondo me e secondo molti queste opere non dovrebbero mai essere portate via dal luogo dove sono nate.

Tra gli artisti più famosi, produttori di queste opere clandestine, c’è Banksy, il leader della street art. Di lui non si sa molto: nato a Bristol lavora in modo particolare con lo stencil che utilizza in modo ironico, toccando argomenti politici e sociali. Ama viaggiare e le sue opere sono apparse un po’ dappertutto. Ama sorprendere e le sue immagini ti fanno riflettere e sorridere; come Sperm Alarm, un graffito apparso l’anno scorso per le strade di Londra.

Banksy, Sperm Alarm, 2011

A chi non lo conoscesse ancora consigliamo di cercare le sue immagini un po’ in tutto il mondo: lui viaggia sempre e – senza dire niente, senza mostrare il proprio nome – lascia i propri lavori nei posti più impensabili.

Se poi volete un panorama completo, magari anche facilmente raggiungibile, della Street Art Svizzera o di quella più vicina a voi, vi rimandiamo al sito Fatcap dove troverete una mappa interattiva interessantissima e dettagliata con luoghi, nomi degli artisti e tanto altro.

SMS, quanto sei comodo, ma quanto mi costi?!

Passo tra poco! Vienimi a prendere, ho finito. Arrivato! Qui è una noia!

Quanti SMS così abbiamo spediti? E quanti ne abbiamo ricevuti? Per non parlare di quelli più compromettenti o che risolvono situazioni senza mettersi veramente in gioco (svicolare appuntamenti o evitare di dire a voce cose spiacevoli ma necessarie)?

Si calcola il volume di SMS giornalieri nel mondo con numeri a nove zeri… Comodo, veloce, apparentemente sicuro (a meno che non si sbagli, come faccio io, il destinatario). Non ci chiediamo neanche più quanto siamo disposti a pagare per un servizio che ormai sembra insostituibile, ma che alle compagnie telefoniche costa praticamente zero.

Qualche tempo fa il Corriere della Sera affermava che quando si inviano SMS, ad esempio, bisogna stare attenti a non usare lettere accentate o caratteri particolari, perché questi fanno fare un salto al limite dei 160 caratteri utilizzabili in un unico SMS e facilmente la compagnia telefonica alla quale siete abbonati (tutte, senza esclusione) vi fatturerà non uno, ma due SMS.

Innanzitutto perché gli SMS possono contenere solo 160 caratteri?

Perché il padre degli SMS Friedhelm Hillebrand nel 1985, quando cercava la possibilità di connessione fra telefoni attraverso la scrittura, pensò che questo numero di caratteri sarebbe bastato per trasmettere domande e testi fondamentali (non pensava il buon uomo, al successo planetario che avrebbe riscosso la sua invenzione e soprattutto non pensava alla bomba a orologeria pronta a esplodere nelle tasche dei genitori piazzata nelle mani dei più giovani) inoltre il parametro dei 160 caratteri era essenziale vista la limitatezza del sistema di allora.

E ora facciamo un po’ di conti: 160 caratteri corrispondo a circa 140 bytes.

Se prendiamo come base un piano tariffario medio (una compagnia vale l’altra), ogni SMS costa circa 20 centesimi di franco, se dividiamo il costo per 140 bytes otterremo che ogni 7 bit (cioè più o meno ogni carattere) ci costa circa un centesimo di franco. Credetemi un’enormità! Infatti se applicassimo gli stessi prezzi a Internet e volessimo scaricare un brano musicale, composto in media da circa 4 Megabytes, dovremmo spendere poco meno di 6000 franchi! (Naturalmente i conti non li ho fatti io ma mi sono affidata a blog e blogger più esperti e affidabili di me, e sono facilmente applicabili anche all’Euro). Inoltre se le telefonate seguissero i prezzi degli SMS, un minuto di conversazione ci costerebbe molto caro: poco più di 100 franchi!!!!

Ok, cielo, ora mi sono persa anche io… ma la sensazione che si ricava da tutto ciò è quella di un’amara presa in giro, anche se l’Unione Europea ha cercato di mettere un freno agli enormi profitti delle compagnie telefoniche (tutte senza distinzione) e all’emorragia del nostro denaro.

Dunque cosa ci rimane per comunicare, senza impegnarci in una conversazione vocale? Oltre a nuove applicazioni che sfruttano gratuitamente il canale di Internet, utilizzate dai più giovani (molto più competenti su questo argomento), potremmo darci di nuovo ai segnali di fumo o al tam tam, l’importante è cercare di restare connessi…

Sebbene…

Avete mai dimenticato il cellulare a casa? Dopo i primi momenti di sgomento avete passato oppure no un paio di ore di assolta tranquillità?

100 anni dalla nascita di John Cage: la leggenda della musica contemporanea

Questo anno si ricorda il centenario della nascita di JOHN CAGE (Los Angeles 1912-New York 1992), il musicista, filosofo, artista che ha rivoluzionato la musica contemporanea di avanguardia.

L’orchestra da Camera di Ginevra (l’OCG) organizzerà, il 5 aprile prossimo, un concerto a l’Usine dal titolo Une nuit d’hommage à John Cage.

Per chi fosse interessato ma non lo conoscesse e non lo avesse mai ascoltato è bene ricordare alcuni aspetti della sua ricerca di avanguardia musicale.

È stato un artista che ha fatto della musica una campo di esplorazione. Per lui la musica è natura e non imitazione della natura. Egli fu molto a contatto con l’arte visiva, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando creava happening dove univa in piena libertà d’espressione l’arte visiva, la musica, il teatro e la danza, dando vita al movimento denominato Fluxus.

Ha sperimentato cose mai fatte prima  come il “piano preparato” (anni ’40) preparava il piano per il concerto mettendo sulle corde delle lastre di metallo, o vari oggetti che ne avrebbero modificato il suono senza poter prevedere come e dunque senza poter controllare il risultato sonoro finale.

Ha esplorato nei suoi concerti il mondo dei rumori, provando a suonare percussioni di ogni tipo.

Da sempre   interessato ad intrecciare rapporti con la danza dagli anni Trenta ha legato un lungo sodalizio con il coreografo Merce Cunningham al quale rimane legato per tutta la vita.

Era profondamente interessato alla cultura orientale, alla musica e alla e alla filosofia indiana. Lo Zen divenne la sua impostazione filosofica e con essa le sue meditazioni sul vuoto.

Potrebbe stupirvi un suo concerto, addirittura indignarvi ma non dimenticate che tutto il suo lavoro è stata la base di tante ricerche musicali nuove e lui rimarrà alla storia come una leggenda di anticonformismo libertà e intelligenza artistica.

Proprio ieri mentre leggevo sulla Stampa  (26 marzo) di gruppi alternativi che si costruiscono da soli gli strumenti musicali e in modo particolare del musicista napoletano Maurizio Capone, percussionista fondatore dei Capone Bunght Banght, una banda che suona con strumenti creati con materiale di riciclo, non potevo non pensare alla scuola di John Cage a quanto gli dobbiamo nel campo della libertà espressiva.