Beati gli operatori di pace dedicato a Giulio Regeni

imgres-1

Forse perché vivo all’estero, ho due figlie che studiano lontano e dei mie undici nipoti cinque vivono fuori dall’Italia, proprio non posso trovare pace pensando a ciò che hai subito, Giulio.

Mai come oggi, un sacco di giovani si mettono in viaggio con la carica giusta, il coraggio, la curiosità e la determinazione per tuffarsi in realtà diverse e fare nuove esperienze. Ve ne sono non pochi che si lanciano anche in lavori e studi difficili per migliorare il mondo in cui viviamo. Mettono passione in quello che fanno e fanno uso di grande coraggio. Tu, Giulio, eri uno di questi; non ti conoscevamo, ma stavi lavorando per seminare ciò che in italiano si chiama giustizia. Un tempo si diceva: non c’è pace senza giustizia. Chi lavora per la giustizia è un operatore di pace. Beati gli operatori di Pace, dice il celebre discorso delle Beatitudini, perché saranno chiamati figli di Dio. Ti hanno spezzato e ti hanno messo in silenzio. Quel che hai subito tu, operatore di giustizia e di pace,  è inimmaginabile. Appena  lo abbiamo saputo siamo stati colti da un dolore profondo. La notizia  si è subito trasformata nell’ennesimo orribile schiaffo contro la libertà  di coscienza e di parola.

Ben vengano i funerali di stato, perché è giusto che l’Italia si stringa attorno a te e alla tua famiglia. E deve farlo per dichiarare, in modo chiaro, quali sono i valori in cui crediamo, affinché non ci lasciamo intimidire da chi opera per condurci verso nuove forme di schiavitù e sopraffazione. Riposa in pace, giusto fra i giusti.

Primi nella classifica dell’Indice di Ignoranza

SchermataNon esiste in italiano un vocabolo che traduca esattamente il termine inglese misperceptions. Potremmo dire “idee sbagliate”, ma la connotazione sarebbe troppo marcata; altra traduzione sarebbe “percezioni errate” o meglio ancora “percezioni erronee” (cioè contrarie alla logica e al vero). Fatto sta che secondo uno studio condotto dalla IPSOS MORI, società britannica di ricerca e comunicazione, in 14 paesi del mondo intero, compresi Australia, Sud Corea e Giappone, è stato calcolato un Indice di ignoranza, che purtroppo ci vede al primo posto fra le nazioni esaminate.

Le 14 nazioni in cui sono state fatte le interviste, nell’agosto del 2014, a soggetti fra i 16 e i 64 anni, sono: Australia, Belgio, Canada, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Giappone, Polonia, Sud Corea, Spagna, Svezia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Nove le domande contenute nel questionario dell’intervista, vertenti sulla percentuale degli immigrati, ad esempio, o sulla percentuale della popolazione che vota alle elezioni o ancora sulla percentuale della popolazione cristiana o di quanti sono i cittadini che superano i 65 anni in una certa nazione.

Attraverso la risposta data da un campione di mille persone la IPSOS MORI ha stilato una classifica molto esauriente sulla differenza che corre fra la realtà delle cose e la percezione che la popolazione ha della realtà delle cose. Non si tratta di un esercizio accademico. Pensate ad esempio su quante percezioni erronee si trova ad esercitare un certo tipo di politica, che fa leva proprio su questo Indice di ignoranza  per costruire le proprie campagne. Vi invito a rispondere alle 9 domande dell’IPSOS MORI. Un giochetto che vi svelerà verità differenti e vi farà comprendere come spesso le priorità pubbliche siano dirottate su false realtà o a causa di allarmismi del tutto inesistenti.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore…

le statue incomplete di CatalanoLe elezioni europee stanno arrivando e noi cogliamo l’occasione per raccontare una specie di favola, che speriamo molti italianintransito troveranno interessante.

C’era una volta un omino, al quale fin da bambino avevano insegnato che votare non è un dovere, ma è un diritto. Finché era rimasto nel suo paese, da bravo cittadino, ad ogni elezione, si era recato alle urne per esprimere la propria preferenza. Un giorno l’omino, che nel suo paese non riusciva più a trovare lavoro, si vide costretto a lasciarsi alle spalle la casa, la famiglia, gli amici e quant’altro per cercare fortuna in un paese lontano lontano, al di là delle montagne e dei mari, in un luogo dove, se a casa sua era giorno, lì era notte e viceversa… Con questo l’omino non aveva certo rinunciato ai diritti che aveva nel suo paese di origine, ma non pensava che poterli esercitare richiedesse una grande fatica e un grande esborso di denaro. Infatti il poverino viveva così lontano, che doveva attraversare talmente tanti posti pericolosi e infestati da bestie feroci per poter ritornare a casa ad esercitare il proprio diritto di voto che, sconfortato, decise di lasciar perdere e di non esprimere la sua preferenza. Come lui milioni di altri omini in mille altri punti del mondo avevano, loro malgrado, preso la stessa decisione…

E questa è la verità, se infatti alle elezioni politiche coloro che risiedono all’estero, in un paese fuori dalla Comunità Europea, hanno la possibilità di votare inviando per lettera la propria scheda ai consolati, che provvedono poi a notificarla in patria, sappiate che, per le elezioni europee, questa possibilità non è contemplata: o si vota a casa, nel comune in cui si compare iscritti nelle liste elettorali, o niente da fare. Ciò significa che milioni di voti verranno “sprecati”, senza appello. Come si può pensare infatti che tutti i residenti in paesi extracomunitari abbiano la possibilità, economica o di tempo, di tornare in patria a votare? Non c’è stata la volontà di trovare una soluzione, che pure è stata prevista negli altri Stati della Comunità. Insomma, lontano dagli occhi lontano dal cuore!

Forse sono fuori dal coro, ma io ci credo nell’idea di Europa unita, trovo sia l’unico modo per uscire dal pantano in cui ci troviamo, è antistorico pensare il contrario. Io ci credo in quello che, per primi, avevano immaginato De Gasperi, Schuman e Adenauer, e veramente trovo che il non poter far sentire la mia voce, per quanto sottile, il non poter esprimere la mia preferenza su coloro che andranno a rappresentarmi, leda grandemente i miei diritti di cittadino italiano. Bisognerebbe correggere questa evidente mancanza, in modo che i cittadini residenti all’estero, fuori dall’Europa, non debbano sentirsi cittadini di serie B, come se la nostra voce non contasse… Ma tant’è!

Evviva l’Italia!

italiani bravi nel soft power

copertina Monocle, febbraio 2014
copertina Monocle, febbraio 2014
Da qualche anno la rivista Monocle pubblica una classifica delle città che offrono la migliore qualità di vita. Raramente, se non mai, una città italiana vi è stata menzionata. Eppure Monocle ha appena pubblicato un numero tutto dedicato all’Italia. Come mai, viene da chiedersi? Lo spiega bene l’editoriale della rivista: l’Italia, nonostante un settore pubblico e una classe politica che fanno acqua da tutte le parti, ha la capacità di industriarsi in mille campi, creando uno stile di vita sempre capace di attrarre attenzione dal resto del mondo.
E’ lo stile creato dalla moda, ma anche dai moltissimi artigiani che rendono unici i nostri prodotti. La rivista parla della grande sartoria napoletana, come delle belle cotonerie del nord. Parla di artigiani giapponesi che sono venuto a stabilirsi  in italia per lavorare nel clima di saper fare che pervade certi nostri luoghi. Ma parla anche della nostra meccanica strumentale e di certe nicchie tecnologiche in cui siamo assai bravi. Parla di una realtà operosa e attiva che si fa rispettare nel mondo, nonostante la pochezza spesso dimostrata da chi ci rappresenta. La rivista definisce questa nostra reputazione legata al fare come una forma di “soft power”, un modo di affermarci non grazie ai grandi schemi di potenza nazionale ma grazie alla capacità di imporsi in una qualche dimensione di vita. E dice anche che un bel sostegno a questo soft power lo danno proprio gli italiani all’estero: con la loro bravura e il loro lavoro sono i migliori ambasciatori dello stile italiano.

Movimenti

Adrain Paci
Adrian Paci

Non passa giorno senza che si parli di giovani teste italiane in fuga. Il Messaggero, martedì scorso, in un articolo di Riccardo De Paolo, dopo aver rilevato che per l’Istat gli italiani che lasciano l’Italia sono aumentati del 26,5%  ha cercato di tracciare una guida per scegliere dove e come lasciare l’Italia.

Per noi che viviamo già all’estero, questo è un tema caro. Sempre in settimana, in un servizio di Radio3 sui giovani in fuga dall’italia, ho ascoltato un imprenditore italiano, che vive a Londra, confermava l’arrivo massiccio di italiani in Inghilterra. Lui pero’ sottolineava anche come questi laureati e specializzati si ritrovano purtroppo a dover lavorare come camerieri nei caffè o come commessi nei negozi.

Ancora fuga di cervelli: articolo del Corriere della sera domenica  scorsa, questa volta per sottolineare un successo tutto giovane e tutto italiano ma ottenuto in Francia. Infatti mentre Luigi Cattel e Barbara Stella hanno vinto il premio europeo degli inventori con i “nano proiettili” anticancro (a loro il trionfo e il premio meritato, ma all’estero i guadagni di questa ricerca)  Massimiliano Salsi lavorando a sud di Parigi a Villarceaux in una multinazionale franco-americana è rientrato tra i dieci vincitori del Mit Technology Review Award. Infatti insieme a Alberto Bonomi ha contribuito a costruire un cavo ottico sottomarino per trasmettere grandi volumi di dati a supervelocità, che uniranno gli Stati Uniti al Messico fino al Brasile.
Salsi afferma di non sentirsi un cervello in fuga e che deve all’Università di Parma le competenze fondamentali nella tecnologia delle fibre ottiche e che si sente parte di un team internazionale dove “Distanze geografiche e passaporti contano poco”.

Dunque pensavo, ai giovani tocca avere coraggio, tocca lasciare i percorsi convenzionali e poi devono imparare presto a tener duro in un paese dove la lingua, il modo di agire e la cultura sono diversi .

Eppure mi convinco che tutto questo servirà: questo migrare trasformerà anche il nostro paese, lo modificherà in profondità perché chi parte diventerà più esigente con l’Italia e non sarà disposto a scendere a compromessi; non accetterà gli errori di chi ha il compito di governarci e l’obiettivo di rimetterlo in grado di marciare. Chi  deve fuggire oggi sarà più intransigente domani.
 

Che felicità

Che felicità quando senti che un giornale straniero importante come il Financial Times parla bene del tuo paese.

Che felicità, ti si allarga il cuore e dentro di te pensi che c’è ancora speranza.

Questo è ciò che ho provato la scorsa domenica quando,dopo pranzo, ho letto l’articolo di Harry Eyres dal titolo: A passeggiata to Italy. Il giornale ha, per l’edizione di sabato e domenica, un supplemento che è un po’ come il domenicale del Sole 24 Ore: Eyres vi tiene una rubrica, the Slow Lane. Già questo nome, la corsia lenta, la dice lunga sull’impostazione dell’autore: vi parla di stili di comportamento e situazioni che privilegiano la qualità di ciò che viviamo piuttosto che la quantità o la velocità. E proprio per questo parla ogni tanto di Italia.

Questa volta lo fa in maniera davvero intelligente. Parte da una tradizione tipica della nostra provincia: la passeggiata in centro, nel tardo pomeriggio, ossia lo struscio (chi non lo conosce o non l’ha fatto almeno una volta?). Eyres nota come il rivestirsi e rendersi ben presentabili per passeggiare avanti e indietro sul Corso, in modo da vedere e farsi vedere, non sia una mera esibizione, ma un modo per mantenere legati i fili che costituiscono il nostro tessuto sociale. Lo definisce una sorta di antidoto all’atomizzazione della società di oggi.  A un certo punto dice anche: “è qualcosa che abbiamo perso, nel nostro mondo (si riferisce a quello anglosassone) se mai lo abbiamo avuto”.

E’ così che finisce col legare la passeggiata a uno stile di vita desiderabile, bello, conscio dell’importanza del fattore sociale nella vita d ognuno di noi. E siccome siamo in Italia, fa seguire la passeggiata dall’aperitivo (e qui si stupisce di mangiare una serie di leccornie offerte liberamente sul banco del bar, mentre beve un bicchiere di buon vino). E chiude dicendo: a questo punto sono pronto per la solenne attività della cena.

Ah, l’Italia. Ancora maestra di stile di vita nelle piccole cose di ogni giorno, che sono il sale dell’esistenza, e così capace di rovinarsi l’immagine  nel mondo a causa delle furberie meschine di pochi.

Ma verrà mai un periodo nel quale saremo rispettati a tutto tondo, per lo stile, per come ci comportiamo, per come siamo?

Noi gente di mezzo a quale secolo apparteniamo?

E’ scomparso Eric Hobsbawm, lo storico. Se ne è parlato molto perché è uno di quegli intellettuali conosciuti anche dal grande pubblico. Il suo libro più celebre, The age of extremes (in italiano Il secolo breve, ed Bur), è sempre citato, quando si parla del secolo appena trascorso, anche se lui in verità era uno storico dell’800. Ed è proprio di questo libro che vi parlo. Il fatto è che si tratta di un’opera che ha fatto fortuna, anche perché offre una lettura sempre interessante su molti aspetti di quel periodo storico, mettendone in luce le caratteristiche salienti a ogni livello, sociale, politico, culturale. Lui lo ha chiamato il secolo breve, il 900, racchiuso tra prima guerra mondiale e dissoluzione dell’Unione Sovietica, per contrapporlo all’800, il secolo lungo, da lui fatto iniziare con la rivoluzione francese del 1789 e finire con la prima guerra mondiale, nel 1914.

Nel libro si trovano tanti riferimenti anche all’Italia e non solo per il fascismo o la guerra, ma anche per gli anni del boom e per la cultura. E questo è, secondo me, il tratto che rende Hobsbawm interessante per un blog come il nostro. Amava l’Italia e la nostra cultura. Poco tempo fa aveva registrato una lettera video a Gramsci. Al di là delle sue opinioni su Gramsci e sul suo ruolo nella storia, personalissime come ogni opinione, colpiva il fatto che questo  grande storico, vissuto sempre nel mondo anglosassone,  ma anche a Vienna e a Berlino,  parlava bene l’italiano e conosceva la nostra storia meglio di tanti di noi.

Già: un tempo le persone colte avevano un gran rispetto per l’Italia. Imparavano la nostra lingua, studiavano le nostre vicende. E offrivano un’immagine migliore del nostro paese, a chi veniva in contatto con loro. Ma che fine ha fatto questo rispetto? Che fine ha fatto il ruolo che l’Italia aveva nella cultura mondiale?