No alla guerra

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Edward Kienholz,The Non War Memorial,1970

C’è sempre chi, fra gli artisti, si sente più coinvolto nelle vicende contemporanee e riesce per questo ad esprimere un dissenso o un’opinione su temi di interesse pubblico, attraverso il proprio lavoro. L’esempio più’ celebre, quello che tutti hanno visto, almeno in fotografia, è il dipinto di Pablo Picasso sulla tragedia di Guernica, che ricorda il barbaro bombardamento (in effetti sono tutti barbari, i bombardamenti) compiuto dalle forze naziste alleate dei nazionalisti di Franco su una città inerme. Gli artisti dissidenti, gli artisti impegnati, non mancano nemmeno oggi. Uno fra tutti: il notissimo, e mediaticamente bravissimo, Ai WeiWei star di mostre, musei e social media . In questi giorni, a New York, al Whitney Museum, è in corso una mostra di arte impegnata, dal titolo An Incomplete History of Protest .

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Serie di manifesti anni Sessanta-Settanta donati al Whitney Museum  esposti per la mostra An Incomplete History of Protest

Tra tutti i lavori che vi si trovano esposti, mi è balzata agli occhi una vecchia conoscenza: l’opera The Non War Memorial dell’artista americano Edward Kienholz (1927-1994). Realizzata nel 1970, era un monito  contro la guerra che aveva visto a lungo impegnata l’America nell’Asia del Sud Est: vi erano (allora, poi il numero è cresciuto) morti 48.000mila soldati americani. Il lavoro consisteva nel riportare alla luce la posizione in cui erano stati ritrovati i cadaveri dei caduti americani, usando uniformi militari opportunamente riempite di terra per sembrare dei corpi. Dava l’idea di trovarsi sul campo di battaglia al momento di raccogliere le spoglie di coloro che vi erano deceduti. Nel suo intento, mai  portato fino in fondo, queste uniformi avrebbero dovuto essere  più cinquantamila, da collocare in un vasto spazio, a Clarks Fork, come corpi rimasti abbandonati sul campo di battaglia.

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Edward Kienholz,The Non War Memorial,1970

L’opera,nello spirito di tutto il lavoro di Kienholz, aveva e ha ancora un  forte impatto visivo: per mezzo di questa installazione la guerra si presenta davanti ai nostri occhi nella sua veste più crudele e senza senso, capace solamente di lasciare dietro di sé corpi senza vita.

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Annette Lemieux, Black Mass, 1991 L’opera è nella mostra An Incomplete History of Protest, Whiteney Museum,New York

Tele umane a spasso per Londra…

“Se la montagna non viene a Maometto, allora Maometto va alla montagna” è un detto antico, che non è supportato da nessun versetto del Corano, ma che probabilmente ci giunge da un saggio di Francis Bacon del XVI secolo. Pragmatici gli anglosassoni vero? Tanto che, alla notizia che quasi un quarto della popolazione britannica non sa che Van Gogh dipinse I girasoli o che Roy Lichtenstein creò Whaam! una famosa galleria di Londra ha immaginato un modo assolutamente originale per incoraggiare il pubblico ad abbordare in qualche modo il mondo dell’arte.

Ma facciamo un passo indietro, una recente indagine ha rivelato che su un campione di 2000 adulti britannici, tre su cinque hanno un rapporto carente o addirittura inesistente con l’arte. Inoltre il 44% è convinto che l’arte sia materia per le elite e uno su dieci è intimidito dalle gallerie d’arte. Insomma un disastro!

La sfida era dunque quella di rendere lo straordinario mondo dell’arte accessibile ad un numero maggiore possibile di persone. Rise Art, una piattaforma online di arte, ha ideato e realizzato un modo del tutto anti convenzionale per promuovere l’arte: cinque versioni viventi di altrettanti capolavori dell’arte mondiale, dipinti da una body painter vincitrice di premi internazionali, Sarah Attwell, sul corpo nudo di cinque modelli che per un’intera giornata si sono aggirati nel centro di Londra, nella metropolitana e sul Millennium Bridge.

Chissà se le opere, tutte famosissime (Van Gogh con I girasoli, Munch con L’urlo, Picasso con Donna seduta, Roy Lichtenstein con Ragazza con fiocco nei capelli, Mondrian con Composizione con rosso, blu e giallo), riconoscibili nonostante le curve dei modelli, hanno incuriosito e incoraggiato qualche impassibile britannico ad entrare in un museo o in una galleria d’arte per ammirare le opere d’arte su una vera tela.  Solo il tempo ci dirà se l’iniziativa ha avuto seguito.

Il quadro da indovinare era…

Bravo Giacomo, lo hai riconosciuto subito. Questo dipinto di Pablo Picasso, Femme aux cheveux jaunes, dipinto nel 1931, si trova nel Museo Guggenheim di New York.

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Il quadro raffigura la modella francese Marie-Therese, che ebbe una relazione con Picasso proprio in quegli anni.

La donna viene dipinta seduta, con il capo reclinato, addormentata. I colori con cui è descritta la donna sono definiti da una linea nera che contorna le curve voluttuose della donna . I colori scelti, come il lilla, o il giallo della chioma, i verdi e i rossi del cuscino separati da linee nere marcate, ricordano nella composizione i quadri di Matisse.

 

L’arte è la migliore crema che ci sia

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Pablo Picasso La joie de vivre, 1945-48

Ai nostri tempi mantenersi in forma, sani e giovani, sembra un dovere. Si sprecano le immagini di donne belle e di uomini forti: qualsiasi mezzo di comunicazione  ne è pieno. E dappertutto troviamo anche indicazioni per conformarci a questi nuovi canoni della bellezza personale. Cosi’ vengono prodotti fiumi di articoli su quale sia la migliore ricetta di eterna giovinezza, su quali siano le creme o le SPA ritenute essenziali, su dove si trovino i migliori ashram per ritirarsi in gruppi di meditazione (ormai sempre piu`affollati).

Io sono certa che, in verità, tutto cio’ significhi  cercare nel buio, sparare alla cieca. Il vero toccasana, per rimanere giovani, è la passione per l’arte. Non si ama l’arte sempre nella stessa maniera, in tutte le stagioni della vita. Da bambini l’arte la vogliamo fare: ci piace dipingere, scrivere. Crescendo, invece, certe espressioni d’arte, come la street art per gli adolescenti, ci offrono modelli da imitare e ci aiutano a capire il mondo. Con gli anni, pero’, l’arte comincia a nutrirci, riempiendoci gli occhi e l’anima. Ogni giorno che passa l’arte ci riporta al  vero senso della vita.

Se non credete che l’arte abbia un potere curativo e che sia capace di tenerci giovani, dovreste vedere mio padre. Appassionato collezionista di 86 anni, non perde mai occasione di andare a vedere una mostra, di concepire un nuovo progetto, di invitare artisti o altri amici con la medesima passione al suo desco. Sabato mi ha telefonato a sorpresa e mi ha detto, pieno di gioia, di essere montato su un treno per un lungo viaggio fino in Trentino, finalizzato a visitare il Mart di Rovereto, dove si sta chiudendo la mostra del suo amico artista Robert Morris e si inaugura quella dedicata a Umberto Boccioni ( Umberto Boccioni: genio e memoria; al Mart fino al 12 febbraio).

E’ dunque questo il segreto per restare giovani: è vivere, godendo dell’arte e delle sue scoperte.

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Prof. Gillo Dorfles

Dedico questo pensiero al critico d’arte e filosofo Gillo Dorfles, autore di molti libri dedicati al significato e alla comprensione dell’arte. Ancora attivo, ha compiuto 106 anni e non smette di offrire riflessioni e pensieri interessantissimi.

Cézanne et moi

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Un amico per la vita; bello ma è una prova non sempre facile. L’amicizia infatti è una miscela strana di affetto, competizione, lotta e compassione. Quattro elementi che se non sono ben dosati possono diventare una bomba; ma se riescono a convivere formano un legame indissolubile. Se poi due amici sono Emile Zola, lo scrittore, e Paul Cézanne, il pittore, allora questa amicizia diventa di interesse pubblico e quando te la raccontano in un  film diventa perfino appassionante. Questa è stata la mia reazione, quando sono andata a vedere la scorsa settimana il film Cézanne et moi, diretto da Daniele Thompson.

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Narra dell’amicizia nata tra due bambini che poi divengono adulti, continuando a intrecciare le loro vite, ma allontanandosi affettivamente sino all’incomprensione, dovuta al successo e alla freddezza di uno e all’insuccesso e alla disperazione dell’altro. Zola, è noto, divenne famoso in vita, al punto tale non solo da vendere benissimo i suoi libri, ma anche da diventare un’icona nazionale con la sua rivoluzione realistica nell’arte del romanzo. Con lui gli operai, le nuove classi dimenticate, avevano vita e dignità letteraria. Ed era appassionato d’arte! Amava gli impressionisti sin da quando nessuno voleva considerarli pittori: nel film lo si vede ospitarli a casa sua, frequentare le loro esposizioni, compreso il salone del 1863, dove loro fecero scandalo (oggi sembra impossibile). Eppure non riesce a considerare grande, veramente grande, proprio il suo caro amico, che si perde nel labirinto di una personalità contorta inanellando un rifiuto dopo l’altro.

Oggi sappiamo che invece Cézanne era il genio assoluto. Di lui Picasso disse: “E’ il padre di tutti noi”. Da lui discende il Novecento con la pittura delle avanguardie e tutto quello che ne segue. Senza Cézanne non si entra nel secolo appena concluso.

E’ un bel film, con i suoi dialoghi tra i due amici, ma anche con gli incontri con altri personaggi della cultura francese dell’epoca e con i colori della pittura di Cézanne, che vivono in ogni scena, sino a stemperare la storia nella visione di una Provenza incantata (oggi a volte sciupata da costruzioni eccessive e da un turismo un po’ becero) e luminosa. Il film si chiude con uno sguardo su uno dei soggetti preferito nell’ultima parte della sua vita: il Mont Saint-Victoire.cezanne-and-i

   

Chiacchiere del lunedì

Delphine Boël, The Golden Rule blabla
Delphine Boël, The Golden Rule blabla

Credo di sapere, almeno per esperienza personale, che non ci sia persona più aperta all’arte di un bambino. Perché? Cosa accomuna il mondo dell’infanzia con quello dell’arte? Non certo perché, come si dice in modo semplicistico, l’artista è come un bambino: lo escluderei. Direi piuttosto perché entrambi devono sopportare noiose persone adulte, che non mancano spesso di ripetere loro: “Ora basta avete superato il limite”.

Eccolo lì il punto di snodo: i bambini e gli artisti hanno il coraggio e l’audacia di superare i propri limiti.

E così mi lascio andare alla fantasia e comparo il dripping di Jackson Pollock, audace, deciso a superare la cornice del quadro, oppure i tagli del nostro coraggioso Lucio Fontana, con l’audacia del bambinio deciso a scavalcare il cancelletto del lettino. E poi penso alla curiosità di esplorare mondi nuovi, la naturalezza con la quale tutti i loro sensi entrano in gioco per scoprire il mondo.

Non c’è dubbio: vivono in due mondi diversi ma accumunati dal movimento, dall’ andare avanti, perché – come ha detto Picasso-  “l’arte – e aggiungo io la crescita – sono mestieri che non si possono imparare”.

Guai a chi volesse impedire a un bambino di crescere e a un’artista di esprimersi.

Antichi volti delle civiltà mediterranee a confronto

 

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Nel grande Musée d’art et histoire di Ginevra, uno dei maggiori contenitori di cultura della città elvetica fino dalla sua nascita agli inizi del Novecento, ricco oltre mezzo milione di opere, con frequenza le sale al pian terreno – disposte sulla destra dell’atrio d’entrata – vengono impegnate in mostre temporanee relative ad un qualche filone storico, archeologico, artistico. Quest’anno ( dal gennaio all’ aprile) è aperta un’ esposizione dal titolo appena riassuntivo di Corps et Esprits (visitabile fino al 27 aprile) ma dal contenuto ben più intrigante perché mette al confronto i modi di rappresentazione della figura umana ( dai suoi lineamenti, agli atteggiamenti, alla composizione dei corpi, agli abbigliamenti, alle pettinature e cosmesi), nelle più antiche e note civiltà dell’ antico Mediterraneo: quelle medio orientali, egizie, greche ed infine romane.Corps-esprits-Carrousel-expos_01

Si scorrono le sale soffermandosi davanti alle teche: e vediamo per prime le statuette ( di incredibile modernità, sembrano uscite dall’ atelier di Picasso) della misteriosa civiltà cicladica; poi apprezziamo l’aspetto di un dignitario assiro che sembra uscito dallo Stendardo di Ur, con la sua testa rasata, l’atteggiamento composto, il gonnellino (in realtà un gonnellone) formato da fiocchi di tessuto ; di seguito ci guardano impassibili le maschere funerarie egizie e di contro vediamo le vivaci rappresentazioni delle attività che all’ombra del faraone si svolgevano; e ci incantiamo davanti alle splendide statue greche di Afrodite e a quelle dei corpi umani nel graduale passaggio – come i critici d’arte hanno scritto – “ dal mito al logos”; vediamo anche le signore romane con le loro elaborate pettinature ed i ricchi sarcofagi del tardo impero.thCAZBIDFU

Infine usciamo all’aperto, e – di là dalla strada , su una verde collinetta – abbiamo di fronte l’opera di Henry Moore, una sua figura reclinata la cui modernità sembra aver assorbito e riproposto precendenti e storici modelli. Anche noi abbiamo fatto il nostre viaggio nell’ arte figurativa.

L’arte è una forma di lusso?

Thomas Struth, Art Institute of Chicago II
Thomas Struth, Art Institute of Chicago II

I musei sono spesso fonte di polemica. Il numero troppo basso di visitatori, sempre commisurato a costi ritenuti eccessivi, è un ragionamento sentito migliaia di volte. Questa volta però la polemica viene dalla Francia, o meglio dal Centre Pompidou di Metz, creato tra 2007 e 2009 ad opera degli architetti Shigheru Ban e Jean de Gastin. Il museo è nato come luogo d’incontro tra la cultura francese e la dimensione della creatività. Si basa sullo spirito del Centre Pompidou di Parigi e ha una sua programmazione indipendente e multidisciplinare, che talvolta si appoggiata anche alle collezioni del fratello maggiore di Parigi.

Centre Pompidou, Metz
Centre Pompidou, Metz

Nel Centro ci  sono, oltre alle sale espositive, un auditorium e un caffè. E’ circondato da giardini. L’architetto Shigheru Ban è un ricercatore, un innovatore, famoso per aver inventato “le case di cartone” . Il museo è costruito interamente in legno coperto con fibra di vetro; il concetto è quello di uno spazio espositivo che possa essere il più modulare ed elastico possibile e che concili l’ambiente esterno con gli spazi interni,  in “un rapporto sensoriale immediato con l’ambiente”.

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Pablo Picasso, Rideau de scene du Parade, 1917

Il Centro è nei pressi della stazione in modo da facilitarne la visita. Risultato: viene poco frequentato (i visitatori si sono dimezzati in tre anni)  e la sua sopravvivenza è a rischio, tanto che il ministro della cultura francese è corso ai ripari annunciando che verranno trasferite a Metz una serie di opere capolavoro dal Pompidou di Parigi ( come le scene realizzate da Picasso per il balletto Mercure, del 1917, oppure alcune opere di Mirò e Dan Flavin). Le opere parigine rimarranno in deposito per un paio di anni. Inoltre è stato assegnato un nuovo finanziamento al Centro di Metz, per 500.000 Euro.

Dunque, la lezione che sembra scaturirne è che per avere visitatori nei musei più periferici occorrono continui rinnovi e soprattutto opere famose che attirino turisti. Mi viene da pensare che questa scelta, quasi forzata, di doversi basare sempre su nomi e opere accattivanti è un po’ come scegliere una borsa firmata. Ma, si sa, il lusso costa caro e va alimentato con  molta pubblicità e giusta comunicazione.

Sylvie Fleury
Sylvie Fleury

Solo così orde di persone si accalcano per vedere una mostra nata, non da una ricerca o dal desiderio di aggiungere qualcosa alla conoscenza, ma solo per lo  scopo di essere un richiamo civetta, un evento da non perdere. Non possiamo fare a meno di domandarci quanto ripaghi in termini di cultura vera questo continuo spostamento di opere per attirare visitatori. Spostamento che crea anche usura nelle opere stesse. Ricordo una professoressa molto snob della facoltà di storia dell’arte dell’Università Firenze che, venti ani fa, aveva l’orrore dei primi  quadri pubblicizzati, per le mostre, sulle fiancate degli autobus e inferocita ci incitava a boicottarle.

Arte e vita – Arte che vive

Pierre Huyghe, Zoodram, 2004
Pierre Huyghe, Zoodram, 2004

Non sarà difficile per chi ama frequentare l’arte del XX secolo trovare una relazione stretta tra arte e vita. Far coincidere arte e vita è stato uno dei temi centrali del secolo scorso; gli artisti nel tempo lo hanno praticato in modo diverso cominciando dal en plein air degli impressionisti, per passare poi ai collage di Picasso e al colore sgocciolato di Pollock e arrivare fino agli happening di Fluxus, magari passando dall’orinatoio di Duchamp.   C’è un momento, però, nella storia dell’arte della seconda metà del XX secolo, in cui l’arte non coincide veramente con la vita, ma l’artista è interessato a dare vita all’opera d’arte. Mi spiego meglio: dagli anni Sessanta si assiste alla ricerca di una forma d’arte che sia essa stessa vita . Per me questo è il significato profondo dell’arte povera, una forma di arte che quasi promanava dall’energia della materia e che esprimeva la sostanza delle cose.

Interesse per le cose viventi, rendere l’opera d’arte un organismo vivente che viva la mutazione e il cambiamento: questo senz’altro è il lavoro dell’artista francese Pierre Huyghe che in questo momento ha una retrospettiva al Centre Pompidou a Parigi.

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Pierre Huyghe, Untitled, 2011

Egli esplora l’arte e le sue leggi, i segni del tempo e  i cambiamenti biologici delle cose. Chi infatti potrà visitare la sua mostra vedrà come il suo lavoro  è fatto di tanti materiali e tecniche diverse: ciò che cerca è lo stato in cui un’opera diventa un organismo in continua metamorfosi e cambiamento, quasi un mondo che si autogenera e varia nel tempo e nello spazio, indipendentemente dalla presenza degli spettatori. Colpisce ad esempio A Way in Untilled, una scultura di una donna sdraiata  con la testa coperta da un alveare di api.  La statua è diventata il luogo per le api, che si sono appropriate della forma e che ora vivono dentro essa. Oppure il lavoro Zoodram, acquari dove vivono invertebrati e ragni marini che l’artista ha scelto per i loro comportamenti e per le loro forme. Dentro gli acquari convivono con paesaggi insoliti: teste di muse, forme surreali di architetture. In mostra potrete anche imbattervi in un cane bianco con una zampa rosa . Si legge nel depliant della mostra: “ la mostra è aperta a delle forme di vita che normalmente sono vietate. Ragni e formiche tracciano le proprie linee negli spazi  acquatici dove trovano rifugio, delle api costruiscono i loro alveare e un cane circola”.

Pierre Huyghe, Centre Pompidou
Pierre Huyghe, Centre Pompidou

Dentro la mostra ti senti  in un mondo vivo e anche a te è richiesto di agire come nell’opera Atari Light, del 1999, dove il soffitto è programmato per trasformarsi in una scacchiera e il pubblico è invitato a giocarvi muovendo le pedine con dei telecomandi.

La mostra curata da Emma Lavigne è aperta al Centre Pompidou fino al 6 gennaio 2014, poi andrà al Ludwig Museum di Colonia  e poi al LACMA di Los Angeles.

Oggetti trovati e trasformati: una retrospettiva a Roma di Louise Nevelson

Louise Nevelson
Louise Nevelson

Se vi capitasse di domandarvi chi furono i primi artisti nel secolo scorso a pensare che l’arte si possa fare con qualsiasi cosa e, magari, anche quali siano i nomi di chi furono i primi a sperimentare gli oggetti di uso quotidiano dentro le opere d’arte, dovreste andare con la mente a Parigi nel primo decennio del ‘900 a cercare Picasso e Braque . Parigi, in quei giorni, era il centro d’arte che riuniva tutti quegli artisti orientati verso un’arte nuova  e antiaccademica. Picasso e Braque nel 1912 cominciarono ad  inserire nei loro dipinti carte da parati, pezzi di legno, o ritagli di giornali. I due artisti creatori del cubismo cercavano in tal modo una strada per riportare l’arte vicino alla realtà, offrendo anche delle nuove spazialità al dipinto.

C’è una scultrice che si inserisce in queste ricerche, un’artista più giovane che avrebbe ereditato il gusto dell’oggetto quotidiano come elemento da inserire nell’opera. Si tratta di una donna russa che si chiamava Louise Nevelson (1899-1989). Un’artista ebrea emigrata con la famiglia, nel 1905, negli Stati Uniti. Un’appassionata di arte africana di cui divenne anche una importante collezionista.

Louise Nevelson
Louise Nevelson

Vi segnalo questa figura perché da pochi giorni, a Roma, si è aperta una grande mostra dedicata a quest’artista. La retrospettiva è  a cura di Bruno Corà , si trova nel Palazzo Sciarra, è promossa dalla Fondazione Roma Museo e rimarrà aperta fino al 21 luglio.

Louise Nevelson proveniva da una famiglia di commercianti di legnami e questo dovette influenzarla perché non cessò mai di considerare il legno come materiale privilegiato per i suoi lavori.

Nella biografia si legge che il padre la incoraggiò sempre nel suo lavoro e che credette nei diritti delle donne. Sarà anche per questo  che la Nevelson ha sempre affermato la propria fierezza di essere un’artista donna : si sentiva “donna, tanto donna da non voler portare i pantaloni”.

Il riconoscimento internazionale come artista le arrivò solo all’età di 68 anni, in seguito  a una retrospettiva al Whitney Museum, nel 1967. Le sue grandi sculture ora si possono ammirare nelle strade di New York, Los Angeles e nei più grandi musei americani.

Il suo lavoro si riconosce bene perché ha sempre girato attorno all’idea di  assemblage monocromi, con il nero come colore dominante. Le sculture sono come delle grandi scaffalature, o contenitori, dove si compongono, come in un quadro cubista, pezzi di legno, gambe di sedie, tavoli rotti; tutti oggetti che una volta messi insieme e assemblati formano delle composizioni astratte.

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Potete trovare tutte le informazioni della mostra  all’indirizzo http://www.fondazioneromamuseo.it