Gli italiani sono ancora ostaggi dell’anguria e della bruschetta?

Team of people carrying an Internet cable.

In questi giorni ho avuto tra le mani delle vecchie riviste dei primi anni Novanta dedicate all’arte contemporanea. Sfogliandole ora, sembra sia passato un secolo.

Per esempio, prendiamo una copia del 1996 di Flash Art, un articolato dal titolo : Internet. Qui si spiegano i primi passi fatti da parte dei musei nell’uso di internet di cui si lodano le  capacità informative e si cercano di capire le sue “potenzialità estetiche”.

Sempre nello stesso giornale,  il giornalista e direttore di Flash Art Giancarlo Politi nel suo editoriale si lamenta dell’Italia della sua  scarsa attitudine ad una vitalità culturale attiva e propositiva nelle città e istituzioni. Così mentre in Francia- si legge-  investono in grandi progetti  culturali che si trasformano in eventi sociali , culturali e mondani straordinari, in Italia la cultura è sinonimo di seriosità e depressione . Politi  deluso sottolinea come gli amministratori delle città preferiscono all’arte, l’anguria gratis o la pasta e fagioli.

Divertenti questi echi lontani di discussioni infinite. Molte cose sono cambiate.

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OGR, Officine Grandi Riparazioni, Torino

Faccio un esempio. Sono tornata da poco da Torino dove ho visitato la nuova OGR le officine Grandi Riparazioni, un grande edificio di archeologia industriale da poco restaurato per ospitare concerti, mostre, spettacoli, performance. Un luogo fantastico . Al suo interno un ristorante, un bar molto gradevoli. Si è aperta una mostra dal titolo “Come una falena alla Fiamma”, dove l’arte contemporanea si presenta a fianco di  opere antiche e con esempi di  passioni collezionistiche. OGR è un luogo che ti accoglie in modo gaudente e frivolo un esempio perfetto di mondaneità, piacevolezza e cultura. Politi può considerare raggiunto l’obiettivo. 

Notte degli Archivi, Torino, 2017

Sarà perché la mia tesi di laurea (si parla veramente di tanti tanti anni fa) si basava su documenti dell’Archivio di Stato di Torino, sarà perché decifrare quelle pergamene ingiallite, in latino medievale e in scrittura carolina, piene di abbreviazioni e nomi impossibili mi faceva sentire bene, sarà perché ad una certa età, purgata la paura e l’insicurezza, la giovinezza si ricorda come uno stato di grazia, sarà per tutte queste ragioni che quando ho scoperto che a Torino il 15 settembre ci sarà la “Notte degli Archivi” mi sono commossa.

Non so se solo io o anche altri provano un fremito nell’effettuare il viaggio nella memoria storica che gli archivi rappresentano. Un cammino alla scoperta di un tesoro inestimabile che identifica il nostro passato, una finestra aperta sulla nostra storia recente o remota.

Gli archivi storici di istituzioni pubbliche e aziende private italiane il 15 settembre saranno raccontati da un gruppo di scrittori, ai quali è stato dato il compito di guidare lo spettatore attraverso i frammenti dei patrimoni archivistici custoditi nella città di Torino. Attraverso le raccolte di immagini, di filmati, di documenti e di stampe chi vorrà essere coinvolto potrà sperimentare una forma di narrazione avvincente.

Non c’è archivio che non sarà “raccontato”. Da quello del Conservatorio Giuseppe Verdi, all’Archivio di Stato (che conta un’estensione complessiva di scaffalatura di 83 km) affidato alle sapienti parole di Michela Murgia, che accompagnerà il pubblico in un racconto in cui la città di Torino farà da sfondo ad una storia di persone eccezionali. Dall’Archivio storico del Teatro Regio, raccontato da Marcello Fois, all’Archivio storico Italgas, rappresentato da Bruno Gambarotta.

Insomma si potrà trascorrere una notte in archivio tra memorie e storie passate che forse possono far meglio comprendere il presente. Potrei non essere l’unica a commuoversi!

In a Station of the Metro*

Aspettare l’arrivo della metropolitana può rivelarsi fra le cose più noiose che ci tocca subire nei nostri spostamenti quotidiani, fra l’ansia di fare tardi  e la stanchezza al termine di una giornata passata in ufficio.

Dal 15 gennaio al 15 aprile a Torino si è pensato di offrire al pubblico dei pendolari la possibilità di ascoltare, con uno sottofondo musicale, i versi di diciannove poeti. Oltre settanta poesie, o “frammenti” di esse recitati in modo che, come afferma la direttrice dell’Associazione culturale Yowars – promotrice dell’iniziativa –  “la proposta poetica, anche nel breve tragitto di andata e ritorno tra casa e lavoro, diventi personale, dedicata, capace di toccare corde nascoste”.

Tutto ciò è “Metro Poetry”, il progetto nato da un’idea dell’Associazione culturale Yowras (Young Writers & Storytellers) proposta al Gruppo di Trasporti torinese, realizzato grazie alla collaborazione dell’agenzia di comunicazione Zipnews.it e delle case editrici Adelphi, Giunti, Guanda, Newton Compton.

I poeti proposti sono:

  • Federico Garcia Lorca
  • Emily Dickinson
  • Giacomo Leopardi
  • Edgar Allan Poe
  • Emanuel Carnevali
  • Edgar Lee Masters
  • Constantinos Kavafis
  • Ugo Foscolo
  • Pablo Neruda
  • Jacques Prévert
  • Friedrich Hölderlin
  • Charles Baudelaire
  • Giovanni Pascoli
  • Arthur Rimbaud
  • William Shakespeare
  • Rabindranath Tagore
  • Giosuè Carducci
  • Walt Whitman
  • Rudyard Kipling

 

“La scelta di includere il nome del lettore o della lettrice è dettata dalla volontà di rendere il meno anonimo possibile l’invito all’ascolto. Non si tratta di voci, si tratta di persone: persone che leggono per persone che viaggiano, le quali, ricordando magari solo un verso di quel brano poetico, possono, se vorranno, cercarne e trovarne la conclusione”.

Insomma un invito al ricordo, alla scoperta di quello che sta attorno a un verso poetico e chissà anche un modo per rilassarsi e per non pensare che oggi è lunedì!

 

* In a Station of the Metro

The apparition of these faces in the crowd;

Petals on a wet, black bough. 

Ezra Pound 18851972

Buon viaggio nel mondo di Rosemarie Trockel

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Rosemarie Trockel, Louvre1,2009

Ci sono artisti il cui lavoro necessita di essere esplorato come si potrebbe visitare  una wunderkammer. Le opere, anche se tessono un’unica idea, sono presentate sempre in modo diverso. Rosemarie Trockel è fra questi. I suoi lavori infatti sono sempre diversi e  rappresentano un mondo di relazioni. Non ci sono limiti nell’esprimersi lei è capace di usare ogni materiale o mezzo : la fotografia, il collage, i ritratti, il filo con il quale ricama o che usa per coprire forme abbozzate o divengono linee rigorose che disegnano le tele, la ceramica come esplosione di materia molto spesso specchiante o infine oggetti di uso comune.

Il suo lavoro  riflette su temi quali l’identità, il suo essere donna , la storia della conoscenza, le tradizioni popolari ma anche la sua passione per la  botanica, le forme animali, la mineralogia.

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Rosemarie Trockel, My Dear Colleagues,1986

Quando vedi il suo lavoro non lo dimentichi ma ti richiede tempo e pazienza per assimilarlo. In questi giorni, chi fosse interessato, e fino al 26 febbraio, può andare a visitare una sua mostra  a Torino presso la Pinacoteca Agnelli.

Per quel  gusto che la caratterizza di ricercare e aprirsi al sapere umano non mi sono stupita quando ho letto che questa mostra dal titolo Riflessioni/Reflections è nata nella mente del suo curatore Paolo Colombo come un invito all’artista affinché potesse relazionarsi con le opere dei Musei di Torino. In mostra dunque vedremo cosa ha scelto e come  ha costruito con il passato  un ponte per le sue opere.

La critica Anne M. Wagner qualche anno fa intitolò un saggio sull’artista tedesca Trockel’s Wonderland. Penso fosse molto appropriato. Vi auguro  buon viaggio nell’incredibile mondo di Rosemarie Trockel.homepagebanner_960x370px72dpi

La Piazza dei Mestieri

piazza dei mestieri Esiste in Italia un luogo in cui l’obiettivo finale è quello di creare un punto di aggregazione dei giovani in cui si può sperimentare un positivo approccio alla realtà. Non è una scuola, non è un’ accademia, è un posto dove si cerca veramente di sviluppare il potenziale dei ragazzi in un’età che va dall’adolescenza alla vita adulta.

Si tratta della Piazza dei Mestieri che si rivolge ai giovani dai 14 ai 20 anni, una fascia di età delicata formata da ragazzi che spesso senza neppure accorgersene, allontanandosi dalla scuola regolare, si trovano in una posizione che più facilmente li porta a scivolare verso forme di esclusione sociale. Sono quei ragazzi rassegnati, esitanti, in una parola “difficili”, che si sentono soli, non amati, inadatti. Qui ancor prima di imparare un mestiere si lavora per recuperare il valore della loro persona, si insegna loro ad autoaffermarsi, a dire “io” in modo che le cose che li circondano riprendano interesse e valore.

Il progetto nato a Torino, e per ora esportato solo a Catania, è vincente. Una massa sempre maggiore di ragazzini viene attirata da questa struttura che non solo li accompagna negli anni formativi, ma che non li abbandona dopo, aiutandoli ad entrare nel mondo del lavoro.

Ispirandosi alle piazze che fanno parte della tradizione storica italiana, nella Piazza dei Mestieri ciò che accade è la trasmissione del sapere, del mestiere, delle capacità, delle abilità. Un luogo in cui avviene quasi magicamente uno scambio proficuo di idee e un confronto fra di esse.cuochi

Sotto l’imperativo di valorizzare i talenti, grazie anche all’introduzione dell’arte, della musica e del gusto, i ragazzi che frequentano i corsi di formazione qui erogati, vengono rieducati a una vita responsabile, sollecitati ad impegnarsi e ad essere liberi.

Gli insegnamenti sono gratuiti e accompagnati anche da numerose borse di studio, si frequenta la scuola e si lavora (al ristorante; al pub, dove si produce anche la birra; nella pasticceria, che sforna tonnellate di cioccolato). Ogni anno sono circa 200 (nella sola struttura torinese) i ragazzi che concludono il ciclo di studi e formazione, di cui il 90% trova lavoro nel campo in cui si è specializzato, grazie anche alla collaborazione non solo di grandi industrie, ma anche della struttura portante dell’economia italiana: le aziende artigiane di piccole e medie dimensioni, che qui reclutano lavoratori capaci ed entusiasti.

Luogo di progettazione, di formazione, di accoglienza, di supporto scolastico, ma anche di aggregazione, di attività musicali, teatrali e cinematografiche, Piazza dei Mestieri è una realtà tutta italiana, un altro modo di aiutare i giovani a trovare la propria strada.

Visto e mangiato

Ynka Shonibare, 2013
Ynka Shonibare, 2013

Gustavo Zagrebelsky  ha anticipato ieri su Repubblica la sua riflessione preparata per la terza Biennale Democrazia che si tiene in questi giorni a Torino. Nell’articolo ha affontato il tema della riflessione legato alla felicità. Non ci sono beni che conducono alla felicità e che vanno bene per tutti. La felicità è legata alla natura degli esseri umani. La persona sensuale ad esempio è colei che trova il bene attraverso i sensi e tra i sensi l’articolo elencava anche il gusto. L’articolo era assai più ampio e l’obiettivo alla fine era quello di rimarcare come le idee producono la felicità. (Gustavo Sagrebelski, Il mondo delle idee, La Repubblica, 10 aprile)

Noi invece torniamo al gusto e di conseguenza al cibo e al vino.  Quante cose oggi girano attorno al cibo, mai è stato così tanto rappresentato e pubblicizzato.  Impossibile evitarlo alla televisione o alla radio, sui giornali o nelle immagini per la strada, i volti degli chef sono più famosi  di quelli degli attori e in ogni città  si moltiplicano i luoghi più inimmaginabili dove si possono fare esperienze culinarie di tutti i tipi (ricordo il ristorante  Zurigo dove si può mangiare al buio).

Claes Oldenburg,
Claes Oldenburg,

Il cibo e il vino sono da sempre stati temi privilegiati nell’arte del passato e ancora nell’arte contemporanea (si è da poco conclusa una mostra interessante a Ginevra dal titolo Food a cura di Adelina von Furstenberg presso il Museo Ariana dove si poteva vedere l’opera di molti artisti internazionali legati all’idea dell’alimentazione).

Liliana Moro, Dumme Gans, 2002, struttura in legno biscotto e caramelle esposta alla mostra Food, Ginevra
Liliana Moro, Dumme Gans, 2002, struttura in legno, biscotto e caramelle esposta alla mostra Food, Ginevra,2013

Il cibo infatti non rimane sempre lo stesso, cambia con i costumi della società e mentre da Sinagapore stiamo imparando a coltivare gli orti in verticale gli  Skygreen, grattaceli verdi dove vedremo crescere  l’insalata, c’è chi, come l’ambientalista indiana Vandana Shiva, parte dal cibo per portare avanti la sua lotta contro i mali della globalizzazione, svelando “il business del cibo cattivo” che crea sempre più una popolazione malata malnutrita e obesa.

Skygreen, Singapore
Skygreen, Singapore

Tornando a Zagrebelsky e alla felicità io mi riconosco tra coloro che provano nel cibo un bel divertimento, però sono anche  assolutamente d’accordo con Peppe Severgnini quando scrive che si sente braccato e annoiato da un branco di “enogastromaniaci” (persone soprattutto della nostra età) che trasformano  ciò che è piacevole e divertente  in un ossessione! (da Beppe Severgnini, Italiani di domani, Rizzoli).

Chiacchiere del lunedì

Prova mafalde

Corrado Levi, La panchina rosa triangolare, Torino
Corrado Levi, La panchina rosa triangolare, Torino

Mi piace pensare che nel calendario il 27 gennaio sia in Europa la giornata alla memoria delle vittime del nazismo. Questo perché mi ha dato lo spunto per parlarne in famiglia, in modo particolare con la figlia più giovane che da pochi giorni ha visitato con la scuola il Museo di Anna Frank ad Amsterdam, dove, come lo stesso  direttore ha affermato, ogni giorno è la giornata della memoria.

Il 27 di gennaio è la data in cui furono abbattuti i cancelli di Auschwitz e la Repubblica Italiana con la legge 211 del 20 luglio 2000, ha istituito il “Giorno della Memoria, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. 

Una falsa scienza è stata il perno su cui si è basato lo sterminio di tante persone: esistono uomini che da un punto di vista genetico sono sbagliati, diversi da noi e dunque occorre sopprimerli. Una falsa biologia che è penetrata così a fondo nella mente delle persone, che hanno finito per crederci veramente. Oggi fa paura pensare che si possa aderire in tanti piegandosi ad una tale falsità. Come si può essere distorti ? Dove affonda questo orrore? Le sue radici oggi sopravvivono in chi non si vergogna di diffondere e alimentare il negazionismo, ma anche in chi in modo più sottile ritiene ineluttabile che al mondo i forti debbano sempre vincere sui più deboli.

Chi arrivò per primo in quei campi dell’orrore non ha potuto più dimenticare. Gli alleati furono incoraggiati dai loro stessi comandi a documentare con fotografie e riprese filmate ciò a cui assistevano… per non dimenticare. Gli scampati hanno conservato la memoria di ciò che accadde. Una follia collettiva che contagiò mezza Europa. Come poter pensare che tutto ciò non sia avvenuto? Eppure una certa storiografia nega che tali orrori siano mai successi. A volte rimuovere fa meno male che affacciarsi a baratro dell’orrore.

Così ben vengano i memoriali, i monumenti e le occasioni per ricordare. Vorrei segnalare l’installazione inaugurata l’anno scorso a Berlino dall’artista israeliano Dani Karavan in memoria dei Sinti e dei Rom d’Europa sterminati sotto il regime Nazional Socialista e a Torino la panchina inaugurata ieri dell’artista italiano Corrado Levi dedicata alle vittime omosessuali.

Quando una storia viene raccontata, anche attraverso l’arte, non la si può più dimenticare

Dani Karavan, Memoriale ai Sinti e ai Rom, Berlino
Dani Karavan, Memoriale ai Sinti e ai Rom, Berlino

È bene che l’arte venga in aiuto alla memoria è bene che occupi lo spazio delle nostre città e in modo libero racconti la storia alle generazioni future.

Un italiano nel mondo dell’arte di Ginevra

E’ arrivato a Ginevra il nuovo direttore del  Centro d’arte contemporanea.  Una bella notizia per noi :  è un giovane ed  è italiano, si chiama Andrea Bellini.

Andrea Bellini ha nel suo curriculum studi di filosofia e di storia dell’arte e ha lavorato a New York  come redattore capo della rivista Flash. Ha poi diretto per tre anni (2007-2009) la fiera dell’arte di Torino Artissima. Sempre in Torino ha diretto il Castello di Rivoli assieme a Beatrice Merz.

Artissima, grazie al suo lavoro, è diventata un’occasione culturale di rilievo, una manifestazione  dove, oltre all’incontro con le gallerie, si sono organizzati avvenimenti di musica, video, teatro e fumetto. A Rivoli ha presentato tra gli altri gli artisti Jhon Mc Cracken, Thomas Schutte.

Quando ho visitato la prima volta il Centro d’arte contemporanea di Ginevra ho provato un senso di confusione: non ci capivo niente.  Ho realizzato solo più tardi che il Centro è collocato nello stesso edificio di un altro museo il Mamco (Museo d’arte contemporanea di Ginevra), Ciò nonostante, i due luoghi non dialogano tra loro. Sono sotto lo stesso tetto, ma rimangono molto distanti.  Il Centro che Andrea Bellini andrà a dirigere è una specie di Kunstalle; è per sua natura uno spazio aperto, meno museo più luogo di sperimentazione. Si tratta insomma di un luogo di incontro per artisti, che così possono far conoscere il proprio lavoro e incrociare aspetti diversi.

Sul supplemento della Tribune de Geneve, la Tribune des arts , il giornalista Michel Bonel ha fatto un’intervista a Andrea Bellini e gli ha chiesto se lui percepisce una evoluzione nel campo dell’arte contemporanea. Bellini ha risposto così: “ oggi l‘arte parte da tutti i sensi. Non esistono più linguaggi poetici dominanti” sempre continuando ha poi affermato “(l’arte) tende a conservare il suo vecchio paradosso. È completamente inutile nella misura in cui non ha nessun tipo di funzionalità e, allo stesso tempo, è assolutamente indispensabile alla nostra specie”.

Quest’ultima affermazione mi trova completamente d’accordo.

Benvenuto ad un nuovo  italiano in transito.

Chiacchiere del lunedì

L’amore e i lucchetti di Ponte Milvio

Cosa meglio di un lucchetto chiuso per sempre può rappresentare l’amore eterno? A Roma sul Ponte Milvio, complice il romanzo di Federico Moccia del 2006 (Tre metri sopra il cielo), l’usanza era quella di chiudere un lucchetto agganciandolo alle centinaia di altri presenti sul ponte gettando la chiave nel Tevere come segno di sempiterno amore. Qualche giorno fa, il Municipio di Roma, grazie a un decreto risalente al dicembre del 2011, ha dato il via alla rimozioni dell’ingombrante cumulo di lucchetti, che non solo, a detta degli abitanti dei dintorni, deturpavano l’aspetto dell’antichissimo ponte, ma anche, a detta dei tecnici, ne minava la stabilità.

Noi ci abbiamo riflettuto.

– Da sempre le monetine nella fontana di Trevi, la mano nella Bocca della Verità, a Roma… per non parlare del pestare le parti basse del Toro simbolo di Torino sotto i portici di Piazza San Carlo (tradizione esportata anche a Milano nella Galleria Vittorio Emanuele)… oggi i lucchetti di letteraria (?) natura, si tratta di consuetudini più o meno antiche che devono essere rubricate come scaramanzia o semplicemente come dabbenaggine?

– La vita delle cose è stato il tema dell’ultima edizione del festival della Filosofia di Modena. In un bel articolo apparso sul domenicale del Sole 24 Ore del 9 settembre, Remo Bodei ha espresso un concetto importante per differenziare il significato di oggetto e cosa. Gli oggetti sono inanimati le cose invece portano in sè affetti, idee  e simboli. Non gli oggetti ma le cose hanno la forza di unire storie individuali e collettive, natura e civiltà umane. Ho pensato allora ad un piccolo portafoglio di tela che mia madre mi ha consegno’ anni fa: conteneva un po’ di spago, delle monetine e un coltellino. ” Conservalo, mi disse, apparteneva al babbo di mia madre quando era in guerra”. Quelle cose sono per la mia famiglia un pezzo della nostra storia.  Ci serve per riunirci alla storia dell’umanità.

Concetto bellissimo, di grande poesia, ma a volte le cose che rappresentano per taluni passi importanti nella vita, ricordi, pezzi di storia,  possono danneggiare, come nel caso dei lucchetti, un importante e antico bene comune, allora ben venga che, come si è ventilato (ma non realizzato), questa massa di lucchetti trovi posto altrove, per non svilirne il significato che hanno assunto…

-Anche i lucchetti ispirati al romanzetto d’amore di Moccia, dal momento che vengono lasciati su un ponte, diventano automaticamente delle cose. E io sono d’accordo quando Baudel scrive che ” le cose rappresentano nodi di relazioni con la vita degli altri” e per questo non riesco ad essere cosi sicura che sia stato giusto toglierli. Ho chiesto il parere di mia figlia adolescente. Come prima risposta non ha avuto dubbi: hanno fatto bene a toglierli, ha detto. Subito dopo pero’ ha cambiato idea e ha aggiunto: ” certo mi sarebbe piaciuto vederli; non so come spiegarti, ma mi sembra incredibile che ognuno di essi rappresentasse una storia d’amore”…

Fateci sapere che ne pensate… siete pro o contro?