Inquadrare la forza della natura attraverso la fotografia o la pittura: le vite di Salgado e Turner a confronto

Il-sale-della-terra-poster-franceseDue volte sono stata al cinema, con le mie figlie super adolescenti di 14 e 17 anni, per due film diversi: entrambi però dedicati a spiegare l’opera di un artista, esplorata anche attraverso i rispettivi percorsi biografici.

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Il primo, più documentario che film, è stato quello dedicato al fotografo artista contemporaneo Juliano Ribeiro Salgado, diretto da Win Wenders, dal titolo Il sale della terra.

Il secondo invece è quello dedicato al pittore inglese William Turner vissuto a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, diretto da Mike Leight e intitolato Mr Turner.

Le ragazze hanno risposto così alle due serate : colpite e entusiasmate dal lavoro e dall’opera di Salgado, desolate e annoiate dal film su Turner.

E chiaro che si tratti di un raffronto difficile. Siamo davanti a due generi diversi, con artisti di epoche lontane fra loro, ma confrontarli può comunque esserci utile sarà utile per riflettere sul significato dell’arte.

Il film di Win Wenders è migliore? Non ne sono sicura a me sono piaciuti entrambi . Posso capire che i temi di Salgado siano piu vicini al modo di sentire delle mie figlie; le scelte etiche e morali dell’artista lo rendono comprensibile e non è stato difficle per loro ammirare ilsuo lavoro e la sua lunga ricerca. La vita di Turner, invece, dentro la cornice storica del XVIII secolo è molto piu ostica e anzi, per certi versi, respingente e lontano dalla completa comprensione .

Eppure Salgado e Turner ci dicono qualcosa dell’arte : la ricerca artistica per entrambi è inelluttabile, quasi una forza che li spinge ad andare avanti e da cui non possono ritirarsi, devono comprendere le leggi della natura comprendere nelle loro opere il mistero della Terra e per fare ciò sono spinti a compiere esprienze visive dirette, fino ad accettare le avventure più spericolate,. E’ molto bella l’imamgine di Turner quando si fa legare al palo di una nave in tempesta, come pure è bella la scena di Salgado appostato davanti agli orsi polari.

Diverse le fotografie di queti due film ma belle tutte e due, da non saper scegliere. Resto dell’opinione che sono due film da non perdere e che mi rimarranno sempre nel ricordo di due serate molto gradevoli.

La vita o è stile o è errore

imagesLa nostra immagine, come italiani deriva dal nostro stile di vita. Cinema e moda l’hanno portata nel mondo, tirandosi dietro anche altri settori come l’alimentazione, il mobile e così via.

Uno stile di vita complesso che si riassume in una parola: buongusto. Si applica a come mangiamo, a come ci vestiamo, a come arrediamo ma anche a come ci approcciamo alla vita. Si suppone che noi italiani sappiamo farlo con leggerezza e appunto “buongusto”.

Ora, il problema è che oggi rappresentare questo stile nel mondo è divenuto difficile. Da un lato internet rende impossibile farlo senza essere banali: le cose di base sull’Italia sono disponibili ovunque. Dall’altro lo scenario è cambiato: elementi di quello stile che ci ha resi unici e famosi ci sono ancora, ma anche altri ce li hanno. Faccio un esempio: il nostro vino è ormai in competizione con quello di mezzo mondo e hai voglia a dire che da noi è una tradizione: sai cosa gliene importa a chi compra il vino a Rio de Janeiro? Questo si applica a tutti i nostri tradizionali punti di forza. La moda tiene, si dice: beh, insomma. Campa in mani straniere e dove è ancora italiana si dibatte nella discussione sull’opportunità di riportare tutte le produzioni in Italia. Il mobile va: certo, e il salone del mobile è ancora un grande evento, ma ormai l’unico nel suo genere, e purtroppo è anche cronicamente scollegato dal sistema moda, con cui dovrebbe interagire. Abbiamo slow food: super vero. Ma anche tante porcherie che avvelenano il nostro cibo; chi le mangia più le mozzarelle prodotte accanto alla  terra dei fuochi? E tutto il mondo sa della terra dei fuochi: a me ne hanno parlato amiche americane!

La domanda allora è: ma c’è un modo di ricostruire uno stile italiano per usarlo in modo da ri – affermarci nel mondo? Gli americani chiamano soft power l’attrattività culturale di un paese. Un potere basato sulla seduzione e non sulla potenza militare o economica.

Con lo stile italiano noi il soft power ce lo avevamo. Ma adesso come lo ricostruiamo? Come ricreiamo un soft power per ricavarci un nuovo posto nel mondo di domani?

La vita o è stile o è errore, si diceva un tempo. Speriamo lo capiscano anche i nostri politici.

Mamme come noi

Pablo Picasso, Dora maar,
Pablo Picasso, Dora Maar, 1937

Mamme come noi, auguri.

Dalla mia mamma ho imparato a non sprecare la vita con pensieri negativi.

Oltre a lei, come guida, ho sempre in mente un modello di donna che ho scoperto in un romanzo degli anni Cinquanta, la cui protagonista in verità non è una madre ma una zia a tempo pieno: si chiama Zia Mame (romanzo scritto da Patrick Dennis). Si tratta di una donna eccentrica, che vede le cose in modo diverso dagli altri, travolgente, piena di forza e sempre pronta ad avventurarsi in cose nuove, anche quando la sorte le è avversa.

Da non dimenticare: è necessario imparare a salvaguardare la nostra indipendenza e vivere apprendendo a guardare le cose da angolazioni diverse, un po’ come facevano un secolo fa i cubisti con gli oggetti. Chiaro?

Juan Gris,
Juan Gris, Guitar with Clarinet, 1920

… soprattutto donna

franca rame e dario foSi è spenta ieri a 84 anni Franca Rame, per i detrattori una “pasionaria”, per tutti gli altri una grande attrice impegnata in prima persona nella difesa dei diritti civili. Moglie del premio Nobel Dario Fo, ha speso l’intera sua vita per il teatro e dopo, aver vissuto in prima persona l’esperienza del ’68, si è gettata anima e corpo nell’impegno politico diventando un attivista femminista e realizzando pièces teatrali che ella stessa recitava. Donna che, come è stato detto, ha dato voce alle donne, anche in maniera forte ad esempio con il suo monologo Lo stupro, che racconta la sua personale esperienza della violenza sessuale subita nel 1973.

Ci è sembrato doveroso ricordarla qui, in un blog che fra le tante cose parla di “arte”, perché per quanto riguarda Franca Rame, nel bene o nel male, di arte si è trattato… per tutta la sua vita.

Never let me go

Letto e dimenticato. Già… lo avevo letto, con fastidio, e dimenticato in un cassetto della memoria, volutamente.

Quando mi trovai per le mani Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro, ero ancora guidata dall’impossibilità di lasciare un libro a metà (poi per fortuna mi è venuto in aiuto Pennac con il suo Come un romanzo) e dunque mi trascinai penosamente fino alla fine del volume, soffrendo, profondamente, con i protagonisti di questa ingiusta, intensa e visionaria storia d’amore. Era il 2006 e presa da mille altre cose non ero riuscita ad apprezzare questo duro e improbabile romanzo. A metà fra fantascienza e feuilleton.

Ricordo che non potevo rassegnarmi al tragico destino dei protagonisti, ma soprattutto non potevo rassegnarmi al loro immobilismo, al fatto che neanche per una volta, nell’intero libro, nessuno di loro aveva pensato solo per un momento a ribellarsi con risolutezza al fato.

Ringrazio ora di aver avuto l’occasione di leggere questo romanzo, che mi è ritornato in mente dopo averne visto la versione cinematografica, superbamente interpretata da Carey Mulligan (splendida protagonista di An education), Andrew Garfield (l’Eduardo di Social Network) e Keira Knightley.

In un mondo parallelo al nostro, in un’epoca che combacia quasi con la nostra, si dipana la storia dei tre personaggi, Katy, Tommy e Ruth, legati fra loro da profonda amicizia e amore. I ragazzi sono sospesi per tutta la durata del romanzo in un presente di cui non conoscono e non capiscono le regole.

La fanciullezza viene passata a Hailsham, un collegio nella campagna inglese, in un clima ovattato, lontano persino dagli echi della “civiltà”, dove i piccoli sono accuditi e lasciati volutamente nell’incertezza sulle loro origini, ma allevati nella convinzione di essere in qualche modo speciali. Qui i bambini sono invitati a coltivare la loro creatività attraverso l’arte, la letteratura, la musica e solo alla fine del racconto si scoprirà che tutto ciò fa parte di un esperimento per provare che anche i cloni, ciò che questi bambini sono in realtà, sono forse più umani degli umani. Ad Hailsham, infatti, i bambini (e il lettore) iniziano lentamente a comprendere il tragico destino al quale sono chiamati: divenire “parti di ricambio” per un’umanità malata.

Nel secondo capitolo i ragazzi, ormai cresciuti passano gli anni del compimento degli studi, della definizione della personalità, della consapevolezza del tempo che rimane loro ai Cottages, dove godono di una certa libertà. Il terzo capitolo racconta l’età della fine, del compimento dello scopo per il quale i cloni sono stati creati.

La storia è condotta in modo delicatamente orientale, senza contrasti o atti di ribellione al destino, cosa che nel lettore (abituato più spesso ad un agire eroico) lascia spazio allo sconcerto, fatta di atmosfere attutite e lievi. Si è condotti per gradi a scoprire la devastante verità e quasi non la si vuole scoprire tanto è agghiacciante e scioccante.

Così Ishiguro ci lascia il suo messaggio che non credo sia una riflessione morale sulla bontà o meno della creazione di cloni come parti di ricambio e neppure sulla bontà o meno di una società che accetta questa pratica. Credo piuttosto che il desiderio dell’autore sia quello di comunicarci che, alla fine, solo l’arte e l’amore restano all’uomo per dichiararsi tale, al di là di ogni volontà di cancellazione e annullamento.

Non è la prima volta che Ishiguro da prova della sua maestria nel raccontare con suprema bravura il viaggio interiore dei suoi personaggi (vorrei solo ricordare un altro suo capolavoro: Quel che resta del giorno). Detto ciò, fra le mille sensazioni che questo libro singolare lascia, si preferirebbe che questi cloni, tanto gentili, indifesi e inoffensivi fossero fornitori di organi senza anima… tutto sarebbe più accettabile. Da non perdere.