No pain, no game

No pain no gameAl Museo della Comunicazione di Berlino fra il 16 di marzo 2016 e il 26 giugno prossimo si tiene una mostra che può essere definita la mostra più dolorosa del mondo, allestita in collaborazione con il Goethe Institut nell’ambito del progetto SPIELTRIEB! E non sono gli argomenti a renderla dolorosa, ma l’interazione con le installazioni artistiche! Il duo di artisti tedeschi Volker Morawe e Tilman Reiff, che insieme formano il collettivo conosciuto come //////////fur////, hanno allestito 10 installazioni sensoriali che costringono il visitatore di interagire con esse e con gli altri visitatori. Una controproposta molto fisica per far riflettere sull’individualismo e sulla sedentarietà del gioco che definiamo “interattivo”, condotto seduti comodamente sul divano di casa di fronte ad uno schermo.

Facebox

Ed ecco allora che ci viene presentata la Pain Station, vincitrice del Premio Internazionale Media Art, sorella punitiva della Play Station, che sulla base dell’iconico gioco inventato nel 1972, Pong, uno dei primi videogiochi commercializzati al mondo, manda una scossa o vampate di calore al malcapitato giocatore che si trova a sbagliare la risposta del simulatore del ping pong. O ancora la versione gigante del celebre Snake che costringe i giocatori a correre affannosamente per far muovere i serpenti. Senza parlare della palline che si muovono solo se si canta o del social network più piccolo del mondo il Facebox in cui ci si trova fisicamente faccia a faccia con un vicino sconosciuto!

Una provocazione, un modo per combattere l’isolamento e l’ossessione non solo dei videogiochi ma anche dei social, per staccare un attimo gli occhi dal nostro smartphone ed accorgerci che in fondo non siamo soli.

La vita o è stile o è errore

imagesLa nostra immagine, come italiani deriva dal nostro stile di vita. Cinema e moda l’hanno portata nel mondo, tirandosi dietro anche altri settori come l’alimentazione, il mobile e così via.

Uno stile di vita complesso che si riassume in una parola: buongusto. Si applica a come mangiamo, a come ci vestiamo, a come arrediamo ma anche a come ci approcciamo alla vita. Si suppone che noi italiani sappiamo farlo con leggerezza e appunto “buongusto”.

Ora, il problema è che oggi rappresentare questo stile nel mondo è divenuto difficile. Da un lato internet rende impossibile farlo senza essere banali: le cose di base sull’Italia sono disponibili ovunque. Dall’altro lo scenario è cambiato: elementi di quello stile che ci ha resi unici e famosi ci sono ancora, ma anche altri ce li hanno. Faccio un esempio: il nostro vino è ormai in competizione con quello di mezzo mondo e hai voglia a dire che da noi è una tradizione: sai cosa gliene importa a chi compra il vino a Rio de Janeiro? Questo si applica a tutti i nostri tradizionali punti di forza. La moda tiene, si dice: beh, insomma. Campa in mani straniere e dove è ancora italiana si dibatte nella discussione sull’opportunità di riportare tutte le produzioni in Italia. Il mobile va: certo, e il salone del mobile è ancora un grande evento, ma ormai l’unico nel suo genere, e purtroppo è anche cronicamente scollegato dal sistema moda, con cui dovrebbe interagire. Abbiamo slow food: super vero. Ma anche tante porcherie che avvelenano il nostro cibo; chi le mangia più le mozzarelle prodotte accanto alla  terra dei fuochi? E tutto il mondo sa della terra dei fuochi: a me ne hanno parlato amiche americane!

La domanda allora è: ma c’è un modo di ricostruire uno stile italiano per usarlo in modo da ri – affermarci nel mondo? Gli americani chiamano soft power l’attrattività culturale di un paese. Un potere basato sulla seduzione e non sulla potenza militare o economica.

Con lo stile italiano noi il soft power ce lo avevamo. Ma adesso come lo ricostruiamo? Come ricreiamo un soft power per ricavarci un nuovo posto nel mondo di domani?

La vita o è stile o è errore, si diceva un tempo. Speriamo lo capiscano anche i nostri politici.

Chiacchiere del Lunedì

Delphine Boël, The Golden Rule blabla
Delphine Boël, The Golden Rule blabla

Ieri, 25 anni dalla caduta del muro di Berlino. Nella capitale tedesca si sono susseguite manifestazioni per l’intera giornata. Dal lancio di palloncini alle visite e ai discorsi ufficiali, ma niente di sfarzoso, di eccessivo. La festa l’ha fatta il popolo, allora come ieri. Soprattutto erano presenti le giovani generazioni, i ragazzi, arrivati da tutta Europa, a festeggiare gomito a gomito, facendo eco alle parole della cancelliera tedesca  “Noi abbiamo oggi la forza di creare il nostro futuro, noi possiamo volgere la realtà al meglio, ecco il messaggio che la caduta del Muro ci tramanda”. E la realtà è proprio questa.

La mia generazione, nata insieme al muro di Berlino, cresciuta durante la guerra fredda e le crisi militari e politiche ha visto nella caduta del Muro, simbolo della mancanza di libertà, la possibilità di riscatto della democrazia e con essa la concreta possibilità di un nuovo tipo di libertà che avrebbe assicurato il benessere.

Anche questo pensiero si è rivelato un’utopia, ai blocchi politici si è sostituito un mondo globalizzato, come alcuni storici sostengono, privo di “alternative”, in cui il clima politico e morale è decisamente decaduto.

Ma io ci voglio credere, e voglio credere soprattutto nelle nuove generazioni e nella loro prodigiosa capacità di cambiare il corso della storia proprio come è accaduto il 9 novembre 1989. Evviva la festa, dunque, evviva la commemorazione, affinché la storia continui ad essere “magistra vitae”… per non dimenticare.

C’è ancora posto per monumenti da erigere?

E’ pensabile oggi che un’artista possa realizzare un monumento? Un’opera, cioè, di scultura nata per celebrare qualcuno o qualcosa? Chi ha uso dell’arte contemporanea sa quanta strada  gli artisti abbiano fatto per contestare le celebrazioni altisonanti e per arrivare a forme espressive più vicine alla vita.

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Elmgreen and Dragset, Powerless Structures Fig.101, 2012

Ma gli artisti, si sa, amano anche le sfide. Infatti, da ormai più di sette anni, a Londra il sindaco della città (coadiuvato da una commissione  di esperti) invita i più affermati  artisti contemporanei a pensare un monumento, da collocare su un grande pilastro ottocentesco, in Trafalgr Square. Il pilastro, posizionato a nord ovest, di fronte alla National Gallery, fu disegnato nel 1841 da Sir Charles Barry e fu pensato per una statua equestre che non fu mai portata a termine.   Collocare l’opera su un piedistallo prevede un grande impegno per l’artista contemporaneo, abituato ormai da più di un secolo a rifiutare ogni costrizione e limite dettati dallo spazio. Ed è così che l’accostamento del piedistallo con l’ opera contemporanea diviene talmente stridente da balzare subito agli occhi. Quest’anno la sfida è stata raccolta da una coppia di artisti, Elmgreen and Dragset, che hanno sviluppato proprio l’idea originaria, quella del monumento equestre: hanno realizzato la statua di un bambino,  in bronzo dorato, su un cavallo a dondolo. E’ il bambino che verrà, è colui che ci fa pensare al futuro e a ciò che sarà. I due artisti hanno lavorato per anni assieme: Elmgreen è danese, mentre Dragset è norvegese. Sono stati presenti all’ultima Biennale di Venezia, nel padiglione che rappresenta la Danimarca assieme alla Svezia e alla Norvegia. Nel 2008 hanno inaugurato un lavoro nel Tiengarten Park di Berlino, con un opera dedicata alle vittime gay del nazismo.

Prima di loro, tra gli altri artisti che hanno lavorato in Trafalgar square sul piedistallo vuoto, ci sono stati Marc Quinn, con una grande figura mutilata dal titolo Alison Lapper Pregnant (2005), oppure  Thomas Schutte, con il suo lavoro Model for a Hotel (2007) ,o ancora Ynka Shonibare con la sua grande nave di Nelson in bottiglia (2010).

Thomas Shutte
Thomas Shutte, Model for  Hotel, 2007
Marc Quinn's Alison Lapper Pregnant,2005-2007
Marc Quinn’s Alison Lapper Pregnant,2005-2007

Il pilastro, insomma, continua a incuriosire artisti, critici e spettatori e la città di Londra ogni anno organizza anche un premio destinato alle scuole: gli studenti possono presentare un progetto per il pilastro e i più belli vengono premiati.

Ynka Shonibare, Nelson Ship in a bottle,2010-2012
Ynka Shonibare, Nelson Ship in a bottle,2010-2012

Così l’arte si lega al passato, offre una visione del contemporaneo, è visibile da tutti e vive del giudizio e dei commenti  di ogni passante.

La resistenza del Muro…

TrabantUn altro pezzo di storia che se ne va! Il luogo: ancora Berlino. Ieri in mezzo alle proteste di centinaia di berlinesi infatti sono stati rimossi in nome della riqualificazione edilizia larghi tratti di quello storico muro che è conosciuto con il nome di East Side Gallery.   Situato sulle rive del fiume Sprea, la East Side Gallery è il più lungo tratto restante del famoso muro, e misura 1,3 km. È diventato uno dei monumenti più visitati della città da quando artisti di fama internazionale (si contano ben 120 nomi) avevano cominciato a ricoprire tutte le superfici con graffiti divenuti icone di un periodo storico.

the kissSpesso irriverenti tali opere sono diventate simbolo ed espressione di libertà come quella famosissima che blocca in un voluttuoso bacio i leader tedesco Erich Honecker e il sovietico Leonid Brezhnev.

È chiaro che queste opere d’arte non verranno distrutte, ma la protesta nasce dal fatto che il significato della location è profondo e ancora vive nell’anima del popolo tedesco. Questo ultimo pezzo di “muro” è ritenuto davvero sacro, è il simbolo delle centinaia di persone e di cuori che esso aveva spezzato, vite e cuori che qui in qualche modo rivivono, insomma un luogo palpitante della capitale tedesca, che verrà irrimediabilmente cancellato.

I musei si espandono: il nuovo Louvre a Lens

E così i musei si sdoppiano, aprono succursali. E più sono ospitali e più vengono visitati diventando luoghi dove trascorrere il proprio tempo e divertirsi. La prima succursale se la è inventata la Solom R. Guggenheim Foundation quando nel 1997 aprì a Bilbao lo spettacolare museo di Frank Gehry: ricordate il clamore e il successo che ne seguì? Ebbene il Guggenheim ha poi ha continuato la sua espansione e, sempre nel 1997, ha aperto un’ altra sede a Berlino. Prossimamente ne aprirà una ad Abu Dhabi, mentre la sede di Venezia merita considerazioni diverse perché è stata, più che una nuova sede, l’assorbimento di un museo che doveva rimanere veneziano e italiano.
Frank Gehry, Museo Guggenheim, Bilbao
In genere sono musei nuovi realizzati da architetti importanti come nel caso del nuovo Centro Pompidou, sorto a Metz, nel 2010, per opera dell’architetto giapponese Shigeru Ban. Il Centro ospita mostre con opere prese in prestito dalle collezioni del Museo d’arte moderna di Parigi.

È di questi giorni la notizia di una nuova sede distaccata aperta da un grande museo. Ancora una volta in Francia, questa volta ad opera del Louvre. Infatti, dal 12 dicembre, sarà possibile visitare una sua succursale nella città di Lens, nella Francia del nord. Il Museo è stato costruito dagli architetti giapponesi Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, che lavorano assieme sotto il nome di SANAA.
Louvre, Lens
Si tratta di una realizzazione enorme: più strutture espositive, la principale delle quali è un hangar lungo 120 metri, realizzato in alluminio e vetro, di grande eleganza e armonia. E’ stato chiamata la Galleria del tempo perché strutturata lungo una linea temporale (una time line) che si dipana all’interno di essa, accompagnando il visitatore dall’antichità sino al secolo appena trascorso. Conserva opere provenienti per la maggior parte dal Louvre (il diciannovesimo secolo è rappresentato da quelle del Museo d’Orsay, naturalmente) che vi rimarranno per cinque anni. Vi è poi uno spazio a pareti mobili per esposizioni temporanee e vi è anche uno spazio (una specie di grande scatola in vetro) pensato per esposizioni di storia e cultura locale. La luce naturale prevale e la struttura può regolarne la quantità in entrata.
Tutta questo fermento ci fa venire la voglia di mettersi in viaggio. Ma, al contempo, ci assale il dispiacere che l’Italia non partecipi a queste rivoluzioni culturali; anzi spesso si lascia scappare anche ciò che di grande ha nel suo territorio.

Noi gente di mezzo a quale secolo apparteniamo?

E’ scomparso Eric Hobsbawm, lo storico. Se ne è parlato molto perché è uno di quegli intellettuali conosciuti anche dal grande pubblico. Il suo libro più celebre, The age of extremes (in italiano Il secolo breve, ed Bur), è sempre citato, quando si parla del secolo appena trascorso, anche se lui in verità era uno storico dell’800. Ed è proprio di questo libro che vi parlo. Il fatto è che si tratta di un’opera che ha fatto fortuna, anche perché offre una lettura sempre interessante su molti aspetti di quel periodo storico, mettendone in luce le caratteristiche salienti a ogni livello, sociale, politico, culturale. Lui lo ha chiamato il secolo breve, il 900, racchiuso tra prima guerra mondiale e dissoluzione dell’Unione Sovietica, per contrapporlo all’800, il secolo lungo, da lui fatto iniziare con la rivoluzione francese del 1789 e finire con la prima guerra mondiale, nel 1914.

Nel libro si trovano tanti riferimenti anche all’Italia e non solo per il fascismo o la guerra, ma anche per gli anni del boom e per la cultura. E questo è, secondo me, il tratto che rende Hobsbawm interessante per un blog come il nostro. Amava l’Italia e la nostra cultura. Poco tempo fa aveva registrato una lettera video a Gramsci. Al di là delle sue opinioni su Gramsci e sul suo ruolo nella storia, personalissime come ogni opinione, colpiva il fatto che questo  grande storico, vissuto sempre nel mondo anglosassone,  ma anche a Vienna e a Berlino,  parlava bene l’italiano e conosceva la nostra storia meglio di tanti di noi.

Già: un tempo le persone colte avevano un gran rispetto per l’Italia. Imparavano la nostra lingua, studiavano le nostre vicende. E offrivano un’immagine migliore del nostro paese, a chi veniva in contatto con loro. Ma che fine ha fatto questo rispetto? Che fine ha fatto il ruolo che l’Italia aveva nella cultura mondiale?

Tacheles di Berlino

Vi raccontiamo oggi la storia del Tacheles (da una parola yiddish che significa “parlare chiaro”) di Berlino, centro sociale, galleria d’arte autogestita e rifugio di decine di artisti fin dalla caduta del muro di Berlino, luogo in cui fino ad oggi trovavano posto circa trenta di atelier, un cinema, un teatro e un ristorante dove un’ottantina di artisti di diverse nazionalità hanno liberamente creato ed esposto le proprie opere d’arte, esso è stato anche set per il film Goodbye Lenin. Il Tacheles richiama ogni anno circa cinquecentomila visitatori.

L’edificio di cinque piani in stile neo classico con elementi neo gotici, che occupa una superficie di 1250 mq, fin dai tempi della sua costruzione, ha vissuto una storia difficile.

Nato come elegante centro commerciale nel 1909, dopo essere andato in bancarotta è stato utilizzato nei più svariati modi. Con il regime nazionalsocialista diventò un centro amministrativo e durante la seconda guerra mondiale, si racconta, che all’ultimo piano venissero eseguiti gli interrogatori dei prigionieri di guerra.

Alla fine del confitto il centro si trovò a far parte di Berlino Est e le autorità ne smantellarono alcuni pezzi, ma non lo ristrutturarono per mancanza di fondi.

Dopo la caduta del muro, l’edificio passò nelle mani del comune di Berlino e molti artisti ne fecero la loro casa, rendendolo, sebbene fatiscente, una vera e propria opera d’arte, e divenendo in breve tempo un baluardo dell’arte alternativa.

Il Tacheles è stato a più riprese dalle autorità di Berlino considerato un modo alternativo sì, ma comunque sano di riqualificazione urbana, e finora questo era bastato a salvarlo da suo destino. Una volta venduto però, dopo anni di lotta fra la proprietà e gli occupanti, oggi si è arrivati alla fine della vicenda con lo sgombero definitivo dell’edificio per fare posto ad un nuovo quartiere residenziale.

Gli artisti del Tacheles, sono stati costretti ad abbandonarlo non senza pronunciare però parole dure contro l’amministrazione pubblica e contro la proprietà.

Di questi artisti purtroppo ci resteranno solo le parole: “L’arte deve cambiare il mondo e il Tacheles lo ha fatto!”.