Chiacchiere del lunedì

… del Natale e delle altre feste comandate

“In un soffio siamo già a Natale”, “ormai manca poco al Natale”, “da qui a Natale é un momento”… Ma lo avvertite anche voi o è una nostra impressione che i tempi tendono a restringersi? Non vi ricordate quando invece i tempi si allargavano, quando ad ogni stagione si dava l’occasione di dilatarsi? L’estate maestosa e con la sua lenta e dolce fine, l’autunno con un po’ di melanconia e le prime nebbie, l’inverno con il suo desiderio di intimità e calore e  infine l’esplosione della primavera… Sempre più le nostre stagioni sono scandite invece dal marketing e dalla necessità di essere i primi a catturare l’attenzione del cliente (sfruttando per altro anche tradizioni che proprio non ci appartengono come Halloween e San Valentino!)…

Che sfinimento! Questi non sono i ritmi naturali!

– Basta! Appena sono entrata nel supermercato oggi e ho visto le prime decorazioni di Natale mi è venuto il mal di pancia. È possibile che ogni anno si cominci sempre prima con l’ipocrita serenata del dolce Natale?

– Non dirmi niente sui tempi del Natale e sul fatto che ogni anno la pubblicità del panettone arrivi sempre prima, per favore! I miei figli mi chiamano il Grinch! Non amo questo periodo dell’anno, preferisco il tempo delle castagne.

– Già è vero, ora non è tempo di castagne? Ridateci l’autunno, ancora ci sono le foglie rosse sugli alberi e già vedo sugli scaffali i primi babbo natale che mi guardano sornioni.

– … e della renna gigante, che fa già bella mostra di sé, che ne pensi? Inoltre da qui a Natale devo fare un miliardo di cose, e se mi fermo un attimo a pensare… il tempo per farle tutte davvero c’é! Natale non é domani.

– L’attesa del Natale è essenziale, ma per mantenerla viva e desiderata, come l’aria di  festa descritta dal Leopardi nel Sabato del villaggio, occorre viverla in un tempo breve ma intenso. Altrimenti quando arriviamo al sospirato 25 dicembre del panettone, delle lucine e di tutto quanto luccica e che ci vuol far commuovere non ne possiamo più e abbiamo già esaurito tutte le nostre emozioni.

Sono d’accordo! Riprendiamoci i nostri ritmi, aspettiamo che cadano le foglie, avviamoci verso l’inverno con passo lieve, restituiamo significato all’attesa del Natale!

Il potere della musica

Quante volte ci è capitato di dire che una certa canzone, un certa melodia ci “ha toccato”? Se riflettiamo su quest’affermazione ci rendiamo immediatamente conto che non si tratta di una metafora, ma veramente la musica è così potente che il suono penetra effettivamente nel nostro corpo, sotto la nostra pelle provocandoci vere e proprie sensazioni fisiche.

Gli esseri umani, infatti, sono “cablati” per essere ricettivi allo stimolo musicale, tanto che la scienza ha dimostrato come pazienti che hanno subito un ictus o con problemi di Parkinson o Alzheimer traggono beneficio dall’ascolto della musica; addirittura molti di essi con evidenti disturbi vocali hanno recuperato in parte la parola.

Daniel Baremboin il noto direttore d’orchestra, ha affermato che l’uomo é intimamente connesso con la musica tanto che, dice, “L’orecchio ha un vantaggio sopra l’occhio. Se non ti piace il mio aspetto, e non vuoi vedermi, chiudi gli occhi e io sparisco. Ma se non ti piace la mia voce e tu sei nella stessa stanza, non è possibile chiudere le orecchie in modo naturale. Il suono penetra letteralmente il corpo umano”.

È stato dimostrato poi che il feto, sente, oltre ai ritmi naturali del corpo della mamma,  anche la musica alla quale risponde con accelerazioni o decelerazioni del ritmo cardiaco, i suoni e le voci gli arrivano come se ascoltasse la musica sott’acqua naturalmente, ma la percepisce e gli fa bene!

Personalmente credo che non esista un tipo di musica migliore di un altro, ognuno secondo il proprio modo di percepirla deve accogliere la “sua musica” quella che lo fa stare bene, che lo mette in pace il cui potere lenitivo era già riconosciuto dall’uomo delle caverne, se è vero che proprio in un grotta neandertaliana è stato trovato il progenitore di un flauto.

E studiare musica fa bene all’animo e al cervello e ti mantiene giovane.

Per chi voglia saperne di più esiste un libro illuminante (naturalmente in inglese…), The power of music, scritto da Elena Mannes, la stessa studiosa che ha realizzato un fantastico documentario intitolato, The music instinct: Science and song (da vedere assolutamente su you tube), in cui l’autrice prende in esame le connessioni fra musica, corpo e mente e le possibilità educative e rieducative che essa offre.

Regaliamoci un po’ più di musica un po’ più spesso, questo ci consentirà sicuramente di vivere meglio!

Vi piace Schubert?

Choc di strada, l’arte incontra tutti

Abbiamo già trattato una volta  della street art, perché se ne fa un gran parlare ed è sempre più un modo di esprimere ciò che si sente in questo momento. La street art è molto seguita dal mondo dell’arte e apprezzata dai giovani. Tanto per farvi un’esempio, mia figlia adolescente l’altro giorno mi ha sfidato e mi ha fatto vedere  un’immagine che circolava su facebook: si vedevano accostati, l’uno all’altro, un lavoro di Lucio Fontana e un disegno fatto sul muro di una città. L’immagine era polemica, dal momento che vi si leggeva: la prima la considerano arte, la seconda vandalismo.

La provocazione era interessante; forse avrei potuto spiegare  che è grazie ad artisti come  Fontana, che oggi siamo tutti liberi di apprezzare alcune espressioni attorno a noi e definirle opere d’arte.  Però il discorso sarebbe stato lungo e avrei dovuto menzionare le avanguardie, i primi papier colle di Picasso e poi i ready made di Duchamp.

Ma torniamo alla street art, oggi vorrei presentare un’artista americano che vive a Washington. Il suo lavoro è di grande suggestione  e utilizza la città come campo di azione. Quest’artista si chiama Mark Jenkins. Tra i temi del suo lavoro vi sono esseri umani, animali e oggetti.  Bambini, vagabondi, senza tetto,orsi, giraffe, parchimetri, lampioni sono riprodotti attraverso involucri di nastro adesivo dai quali sembrano state tolte le forme originarie. Queste figure vengono messe sempre in rapporto con il contesto urbano, piazzate come sono nei posti più improbabili. 

Nel tempo l’artista ha vestito i suoi involucri di nastro con dei veri vestiti e li ha posizionati in contesti inaspettati e disarmanti in luoghi pubblici. Così queste opere si trovavano un po’ dappertutto: una donna che siede sull’orlo di un tetto a Washinton, un’altra che cade da una passerella a Dublino,  un uomo che dorme sul pavimento in un angolo del museo Taubman di Roanoke,  un altro con la testa nascosta in un muro di cemento a Londra.”The Floater”, creato in Svezia a Malmö, rappresenta un uomo vestito con una felpa e in pantaloni sportivi, che giace a faccia in giù, in un canale, con alcuni palloncini sospesi in aria e legati sua cintura: sembra che i palloncini cerchino di tirare il corpo fuori dall’acqua. Questa scultura è stata creata quando Jenkins ha lanciato la sua campagna per Greenpeace, col fine di denunciare la condizione dell’orso polare, che progressivamente affonda con i ghiacci sui quali vive.

Arte di strada che stupisce e ci fa riflettere,  collocata in luoghi scelti dagli artisti; arte ambientale, dunque, visibile a tutti senza biglietto.

Il paradiso perduto di Parade’s end

Il romanzo storico è un genere che per definizione narra di personaggi e avvenimenti inventati calati in contesti storici reali, in cui gli aspetti culturali, economici sociali del periodo in esame entrano a far parte della trama del romanzo stesso.

No, non stiamo per parlare di Manzoni e men che meno dei Promessi sposi, che ci hanno accompagnato nei lunghi anni del liceo, ma di un romanzo che non ha avuto altrettanta fortuna e che è rimasto sugli scaffali delle biblioteche fino a quando la BBC non ne ha fatto una riduzione in cinque puntate per la televisione inglese.

Stiamo parlando della misconosciuta tetralogia dell’altrettanto misconosciuto (almeno in Italia) scrittore britannico Ford Madox Ford composta da Some Do Not (1924), No More Parades (1925), A Man Could Stand Up (1926) e Last Post (1928), che tutti insieme compongono Parade’s end.

Ford passò ben sei anni della propria vita scrivendo questo incredibile affresco dell’Inghilterra post Vittoriana alle porte della prima guerra mondiale. Il romanzo come tutti i grandi capolavori della letteratura riesce a calarci perfettamente nel periodo in esame presentando una sorprendente visione dell’Inghilterra come di un paradiso perduto, all’interno del quale si agita un ordine sociale e morale in fermento, in cui la guerra è considerata solo come un sintomo di un più ampio malessere cronico. Oggi quest’opera è quasi dimenticata perché difficile da leggere (come del resto è difficile da leggere L’Ulisse di Joyce), perché molti sentimenti espressi sono ormai non politicamente accettabili e perché narra di una gerarchia e di un ordine sociale che ci rimangono decisamente alieni. Ma allo stesso tempo ci offre una visione moderna della guerra come sporco affare burocratico, inglorioso e inutile nella usa crudeltà.

Vengono qui narrate le vicende di un eroe classico, Christopher Tietjens, puro esempio di anacronismo storico che tenta di restare aggrappato a nobili ideali in un’epoca di ipocrisia e materialismo.

Il nostro eroe mantiene rigidamente la sua posizione contro la marea del dilagante malcostume e della perdita di quei valori tradizionali che avevano reso grande l’Impero britannico conservando un’ingenuità che lo rende un personaggio al quale affezionarsi velocemente.

Le vicende di Tietjens, membro della piccola aristocrazia di campagna che tenta con tutte le sue forze di rimanere fedele alle proprie convinzioni si sviluppa nell’arco di diversi anni, la sua vicenda umana si lega indissolubilmente con le tragiche vicende storiche dell’inizio del secolo scorso. È un personaggio che tenta di mantenere una parvenza di normalità nella follia di un mondo che crolla e che è destinato a scomparire.

Bellissimi questi libri, e il mio consiglio è quello di leggere assolutamente la tetralogia, sebbene non sia mai stata tradotta in italiano. Sarà una lettura complessa certo, ma che consentirà di capire un’intera epoca e i mali oscuri che l’hanno afflitta mentre la storia compiva inesorabilmente il suo corso.

Non so come farvi affezionare alla vicende umane di Tietjens, una sorta di età dell’innocenza inglese, ma vi assicuro che la sua storia vi appassionerà totalmente, legandovi al puro piacere della lettura.

Per chi poi non se la sente di leggere in inglese l’adattamento della BBC è un fedele surrogato (sarà un ossimoro?).

Chiacchiere del lunedì

Questa settimana è stato assegnato il premio Nobel per la pace all’Unione Europea. Appena avuta la notizia ho pensato: “questa poi non me la sarei proprio aspettata”. E poi mi sono chiesta il perché di questa scelta.

Così sono andata a leggere meglio le motivazioni e ho trovato questo: “Oggi il premio Nobel per la pace vuole premiare il contributo dato per oltre Sessant’anni dall’UE alla promozione della pace e riconciliazione della democrazia e dei diritti umani”.

La Ue ha risposto che per lei è un grandissimo onore ricevere questo premio e tra le tante osservazioni scrive che, in fondo, è un premio destinato ai 500 milioni di cittadini che vivono nella nostra Unione. Sul momento ho pensato che questo premio me lo sono meritato anch’io, ma poi qualcosa continuava a non quadrare nella mia testa. Certo questo premio arriva proprio nel momento giusto, per rafforzare quell’ Unione così fragile e legata più da interessi economici  che morali. Ma questo premio  come può nascondere alcuni pesanti fallimenti di questa Unione?  Penso all’intera gestione dei profughi e dei richiedenti asilo a livello europeo, dove non si è trovata una soluzione adeguata – tantomeno nel  nostro paese che è  terra d’approdo per gli sbarchi.

Ripensandoci bene, il Nobel per la pace se lo meritavano proprio loro, i “fuggitivi”, definiti anche “gli invisibili”, cioè tutte quelle persone disperate che scappano dalla violenza e dalle dittature dei loro paesi portandosi negli occhi gli orrori della guerra .

Sul tema degli sbarchi in Italia  e sulla nostra impotenza di accogliere al meglio chi soffre segnalo il bellissimo film Terraferma diretto da Emanuele Crialese premiato al 68esimo Festival di Venezia.

Un italiano nel mondo dell’arte di Ginevra

E’ arrivato a Ginevra il nuovo direttore del  Centro d’arte contemporanea.  Una bella notizia per noi :  è un giovane ed  è italiano, si chiama Andrea Bellini.

Andrea Bellini ha nel suo curriculum studi di filosofia e di storia dell’arte e ha lavorato a New York  come redattore capo della rivista Flash. Ha poi diretto per tre anni (2007-2009) la fiera dell’arte di Torino Artissima. Sempre in Torino ha diretto il Castello di Rivoli assieme a Beatrice Merz.

Artissima, grazie al suo lavoro, è diventata un’occasione culturale di rilievo, una manifestazione  dove, oltre all’incontro con le gallerie, si sono organizzati avvenimenti di musica, video, teatro e fumetto. A Rivoli ha presentato tra gli altri gli artisti Jhon Mc Cracken, Thomas Schutte.

Quando ho visitato la prima volta il Centro d’arte contemporanea di Ginevra ho provato un senso di confusione: non ci capivo niente.  Ho realizzato solo più tardi che il Centro è collocato nello stesso edificio di un altro museo il Mamco (Museo d’arte contemporanea di Ginevra), Ciò nonostante, i due luoghi non dialogano tra loro. Sono sotto lo stesso tetto, ma rimangono molto distanti.  Il Centro che Andrea Bellini andrà a dirigere è una specie di Kunstalle; è per sua natura uno spazio aperto, meno museo più luogo di sperimentazione. Si tratta insomma di un luogo di incontro per artisti, che così possono far conoscere il proprio lavoro e incrociare aspetti diversi.

Sul supplemento della Tribune de Geneve, la Tribune des arts , il giornalista Michel Bonel ha fatto un’intervista a Andrea Bellini e gli ha chiesto se lui percepisce una evoluzione nel campo dell’arte contemporanea. Bellini ha risposto così: “ oggi l‘arte parte da tutti i sensi. Non esistono più linguaggi poetici dominanti” sempre continuando ha poi affermato “(l’arte) tende a conservare il suo vecchio paradosso. È completamente inutile nella misura in cui non ha nessun tipo di funzionalità e, allo stesso tempo, è assolutamente indispensabile alla nostra specie”.

Quest’ultima affermazione mi trova completamente d’accordo.

Benvenuto ad un nuovo  italiano in transito.

… peperoni imbottiti alla fermata della funicolare!

L’aria che respiriamo dentro le nostre case potrebbe essere tre volte più inquinata di quella all’esterno dei nostri appartamenti, lo dice uno studio universitario, e ciò sarebbe dovuto all’eccessivo utilizzo di deodoranti e detersivi. In cucina poi la situazione sarebbe esplosiva! Infatti i fornelli a gas rilascerebbero più monossido di carbonio di quanto se ne respirerebbe in una strada del centro!

Ahimé triste destino allora per chi è costretto a spadellare!

E allora? Bhe allora ci dobbiamo consolare cucinando qualcosa…

Uno dei profumi che mi ri-catapulta direttamente alla mia infanzia è quello del peperone arrosito sulla fiamma che viene spelato e poi condito con aglio e olio di oliva. Quando sento quel profumo ancora oggi, in qualunque parte del mondo mi trovi,  ho la sensazione di essere tornata a casa. E a proposito di peperoni la mia prozia diceva che una ragazza non era pronta a maritarsi se non imparava a cucinare nel miglior modo possibile i peperoni imbottiti (cioé ripieni di melanzane, alla napoletana). Già il peperone per sua natura non é facilmente digeribile, ma posso assicurarvi che cotto in questo modo è davvero un bomba (unico rimedio: dopo pranzo andare a zappare, se decidete per la cena vi garantiamo una notte insonne e incubi gratis!). Seppellitemi però sotto una montagna di deliziosi peperoni !

Ecco qua la ricetta

4 peperoni gialli e 4 rossi (anche l’occhio vuole la sua parte)

1 kg di melanzane (attenzione devono essere quelle violette lunghe di Napoli che hanno un sapore un po’ piccante)

4 pomodori San Marzano (sapore agrodolce e pochi semi… fondamentali)

50 g di capperi sotto sale (che dovrete lavare per benino prima di utilizzarli)

100 gr di acciughe salate

100 g. di olive nere di Gaeta (che non sono nere ma viola scuro e molto aromatiche)

2 spicchi di aglio

100 gr di pangrattato

prezzemolo

una presa di origano

Olio di oliva

Sale e pepe

Innanzitutto tagliate le melanzane a lamelle spesse cospargetele di sale e lasciatele a riposare una mezz’ora in modo da levare l’eventuale gusto amaro. Lavate i pomodori scottateli in acqua bollente, pelateli e tagliateli a dadini. Lavate i peperoni e tagliatene la calotta superiore ripulendoli all’interno dei filamenti e dei semi, verranno poi imbottiti col ripieno e messi in forno.

Lavate le melanzane e asciugatele per bene, tagliatele a cubetti e friggetele in olio di oliva; appena dorate, scolatele dall’olio e mettetele su una carta assorbente. Nell’olio di frittura (lo so che lo vorreste cambiare, ma è proprio quell’olio lì che dà un altro sapore !) aggiungete l’aglio finché non é biondo (poi levatelo) e il pangrattato finché non si rosola.  Aggiungete le olive snocciolate e tagliate, le acciughe sminuzzate, i capperi, i pomodori e gli odori vari e fate cuocere (quando sarà cotto ve ne accorgerete). A fine cottura ri-aggiungete i dadini di melanzana fate insaporire per qualche minuto e togliete dal fuoco. Lasciate intiepidire il tutto poi riempite i peperoni, disponeteli su una teglia ben oliata, mettete il cappuccetto su ognuno di essi e spolverizzateli di pangrattato, infornate poi il tutto a 180 gradi per 30 minuti. Non siate golosi, aspettate il giorno dopo a mangiarli, ma soprattutto non metteteli in frigorifero (si ammoscerebbero!).

Fateci sapere poi se siete sopravvissuti !

L’arte dà senso ad un luogo

E’ di questi giorni l’inaugurazione all’Aquila dell’auditorium progettato da Renzo Piano. Tre anni dopo il terremoto nasce  (con il contributo economico della Provincia di Trento) un luogo per ascoltare la musica, incontrarsi per conferenze e anche per assistere a proiezioni.  Uno spazio concepito come uno scrigno prezioso, non a caso definito un “piccolo gioiello” che, come capita spesso all’arte, non ha mancato di suscitare assieme al consenso anche qualche polemica, per il costo elevato e per la convinzione di alcuni che con quei soldi si sarebbe potuto fare altro.
Siamo avvezzi a queste polemiche, anche se mi domando quanto siano intelligenti: ogni volta che un’opera d’arte (in senso ampio, di tutte le arti) arricchisce una città, questa sarà una ricchezza per tutti. Ricchezza per tutte le fasce d’età per il fatto di essere pubblica e fruibile da tutti.
Allora gli esempi si affollano nella mia mente e penso a cosa sia voluto dire per la città di  Bilbao, anche in termini di visitatori, il museo Guggenheim,  opera dell’architetto Frank Gehry.Oppure penso alla città francese di Metz col nuovo centro Pompidou, realizzato dall’architetto giapponese Shingeru Ban. Anche qui in Svizzera la nostra gloria italiana, Renzo Piano, ha lasciato non pochi segni sul territorio, come il bellissimo  Museo di Klee a Berna o la fondazione Bayeler a Basilea.

Lo sdegno iniziale dei cittadini che accolgono un nuovo progetto d’arte si trasformerà, in un momento successivo, in orgoglio e passione per la sua conservazione. A questo proposito, mi viene in mente la piccola cittadina di Riola, in provincia di Bologna, che nella seconda metà degli anni Sessanta accolse il progetto per una chiesa del grande architetto finlandese Alvaar Alto. Quella chiesa, nella sua concezione moderna del sacro, è sempre rimasta un luogo di incontro per tantissimi appassionati d’arte e fede.


E come l’architettura, così fa anche l’arte plastica. Pensiamo a Prato: la grande scultura di marmo bianco di Henry Moore è diventata infatti il simbolo della città.


Ben vengano i soldi spesi nel campo dell’arte quando naturalmente a scegliere i progetti c’e’ chi la conosce e  sa dove stia di casa.

Ildegarda, l’aura e il canto gregoriano

Nel maggio 2012 Idelgarda di Bingen (1098 – 1179) è stata proclamata Dottore della Chiesa, perché, fra i suoi meriti, indicò alla chiesa dei suoi tempi come uscire dalla crisi in un periodo travagliatissimo. Su 35 Dottori della Chiesa riconosciuti dai cattolici solo 4 sono donne (Santa Teresa d’Avila, Santa Caterina da Siena, Santa Teresa di Lisieux e infine Santa Ildegarda di Bingen) e tutte sono state proclamate tali solo a partire dagli anni ’70…

Nella religione cristiana Dottore della Chiesa è un titolo che un Papa o un Concilio attribuiscono a quelle personalità religiose particolarmente illuminate che si sono distinte per riflessione teologica, divulgazione della dottrina e santità di vita.

Ma torniamo a Ildegarda. Nata da famiglia nobile, di salute estremamente cagionevole, fin dall’infanzia venne mandata in convento e affidata alle cure di una giovane monaca aristocratica, Jutta di Sponheim, prese i voti giovanissima (intorno ai 17 anni) e visse una lunga e laboriosa vita monacale, producendo non solo scritti di una lucidità encomiabile, ma anche musica sacra di una bellezza celeste.

Vi starete chiedendo a questo punto perché parlare oggi proprio di Ildegarda. Ne voglio parlare perché le sono particolarmente affezionata. Fa parte del mio bagaglio culturale e già ne conoscevo l’opera e ne rispettavo il lavoro prima ancora che fosse proclamata Dottore, ma soprattutto perché, nonostante la lontananza temporale, Ildegarda è un esempio di come una donna sebbene sola, malata, monaca, in un contesto assolutamente maschile possa far sentire la sua voce forte e chiara, portando avanti con lucidità la sua causa a dispetto di chiunque cerchi di metterle i bastoni fra le ruote.

Ultimo sgambetto fatto a questa eccezionale figura storica prima ancora che religiosa, in ordine di tempo, é la teoria secondo la quale Ildegarda soffriva di “scotoma scintillante” cioè dell’emicrania accompagnata dall’aura che provoca allucinazioni, quelle stesse allucinazioni che Ildegarda avrebbe scambiato per messaggi divini. Prima degli attacchi di emicrania infatti l’aura porta alla percezione di oggetti scintillanti o forme geometriche rilucenti con molti angoli, che in effetti potrebbero coincidere con le descrizioni della “pioggia di angeli” o della “Città celeste” fatte dalla santa. Le sue descrizioni della luce splendente di Dio piuttosto che della sua presenza luminescente sono tutte prove della effettiva possibilità di una patologia del genere, tanto che Oliver Sacks nel su libro sull’emicrania porta Idelgarda ad esempio, concludendo che molto probabilmente la santa soffriva di questo disturbo.

Come spesso accade è un problema che sta fra fede e scienza.

Ma quand’anche si stabilisca che le visioni di Ildegarda siano state in realtà allucinazioni, è altrettanto palese che questa patologia diede senso e forma alla sua vita e, a sua volta, seguendo la sua educazione e la sua profonda religiosità, tale malattia fu da lei innalzata spiritualmente, a dimostrazione di una forza d’animo e di una fede non comuni. Ildegarda rese la propria debolezza un’arma appuntita con la quale fustigò il malcostume della sua epoca. E in questo è da prendere ad esempio.

Un’ultima parola vorrei spenderla sulla musica da lei composta o meglio sui canti gregoriani attraverso i quali Ildegarda, diceva, ci si può avvicinare nel miglior modo alla divinità. Un canto, quello gregoriano che é una monodia strettamente legata ai testi sacri, una melodia che si fa preghiera e che tocca le più profonde corde del cuore. Provate ad ascoltare!

Che donna eccezionale!