“dammi una Vespa e ti porto in vacanza!”

C’è chi l’ha sempre desiderata e non l’ha mai avuta (io), chi l’ha avuta e non la può scordare, chi l’ha usata per andare “sui colli bolognesi”, chi per sposarsi, chi per trasportare la famiglia. Insomma è la storia di un successo italiano esportato negli angoli più remoti del pianeta. Stiamo parlando della Vespa lo scooter più famoso e desiderato del mondo! Questo oggetto del desiderio ebbe i natali a Biella con il prototipo MP6, negli anni dell’immediato dopoguerra. Il successo che ebbe subito fu dovuto ad un insieme di fattori diversi: era un mezzo conveniente, semplice, di facile utilizzo, adatto a tutti. Si guidava con l’abito da lavoro ma anche con l’abito della festa perché la pedana impediva di sporcarsi. L’andatura era quella di crociera né troppo lenta né troppo veloce. Un veicolo elegante, dalle linee rotonde, un vero e proprio prodotto di design. Una pubblicità aggressiva e moderna aveva fatto conoscere il mezzo ovunque. Famosi gli slogan come “maybe your second car shouldn’t be a car” o “chi Vespa mangia le mele” rimasti nella memoria collettiva. Un successo del genere naturalmente non poteva lasciare indifferenti gli artisti. Tutti ricordano la Vespa Dalì, oggi conservata al museo Piaggio, la cui carrozzeria fu bizzarramente decorata dal pittore spagnolo.

Ma questo lungo preambolo serve a presentare una singolare mostra che il MACIST (Museo d’arte contemporanea senza tendenze) di Biella dedica proprio alla Vespa: La Vespa nella storia e nell’arte, visitabile fino alla fine di Aprile. 36 artisti, invitati dal compianto Omar Ronda, sono stati chiamati, ognuno attraverso il proprio registro espressivo, a dire la propria “sull’universo Vespa”, che sia il mezzo stesso, l’immagine di chi lo guida, lo slogan pubblicitario o il mito tout court dello scooter. Accanto alle opere d’arte ispirate dalla Vespa trovano posto anche 4 modelli storici della Piaggio, per far compiere al visitatore un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio.

Stelle

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Ad ognuno auguro di camminare seguendo la sua buona stella.

Tema che nell’arte va lasciato a Gilberto Zorio artista inventore di stelle.

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Le stelle di Zorio non sono semplici rappresentazioni ma scaturiscono dall’atto di una scossa di energia, si generano grazie a forze magnetiche e sono come l’esplosione della materia. Nascono da una combustione oppure affiorano incise sul piombo o sul rame possono essere sospese in una stanza collegate ad un processo fisico rigenerativo. Meccanico inventore le sue stelle non sono  mai statiche sempre in trasformazione. La stella di Gilberto Zorio ricorda  la forza che genera la vita, con essa si torna indietro nel tempo a quando tutto è stato creato.

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Buona stella a tutti e buon lunedì

La vita o è stile o è errore

imagesLa nostra immagine, come italiani deriva dal nostro stile di vita. Cinema e moda l’hanno portata nel mondo, tirandosi dietro anche altri settori come l’alimentazione, il mobile e così via.

Uno stile di vita complesso che si riassume in una parola: buongusto. Si applica a come mangiamo, a come ci vestiamo, a come arrediamo ma anche a come ci approcciamo alla vita. Si suppone che noi italiani sappiamo farlo con leggerezza e appunto “buongusto”.

Ora, il problema è che oggi rappresentare questo stile nel mondo è divenuto difficile. Da un lato internet rende impossibile farlo senza essere banali: le cose di base sull’Italia sono disponibili ovunque. Dall’altro lo scenario è cambiato: elementi di quello stile che ci ha resi unici e famosi ci sono ancora, ma anche altri ce li hanno. Faccio un esempio: il nostro vino è ormai in competizione con quello di mezzo mondo e hai voglia a dire che da noi è una tradizione: sai cosa gliene importa a chi compra il vino a Rio de Janeiro? Questo si applica a tutti i nostri tradizionali punti di forza. La moda tiene, si dice: beh, insomma. Campa in mani straniere e dove è ancora italiana si dibatte nella discussione sull’opportunità di riportare tutte le produzioni in Italia. Il mobile va: certo, e il salone del mobile è ancora un grande evento, ma ormai l’unico nel suo genere, e purtroppo è anche cronicamente scollegato dal sistema moda, con cui dovrebbe interagire. Abbiamo slow food: super vero. Ma anche tante porcherie che avvelenano il nostro cibo; chi le mangia più le mozzarelle prodotte accanto alla  terra dei fuochi? E tutto il mondo sa della terra dei fuochi: a me ne hanno parlato amiche americane!

La domanda allora è: ma c’è un modo di ricostruire uno stile italiano per usarlo in modo da ri – affermarci nel mondo? Gli americani chiamano soft power l’attrattività culturale di un paese. Un potere basato sulla seduzione e non sulla potenza militare o economica.

Con lo stile italiano noi il soft power ce lo avevamo. Ma adesso come lo ricostruiamo? Come ricreiamo un soft power per ricavarci un nuovo posto nel mondo di domani?

La vita o è stile o è errore, si diceva un tempo. Speriamo lo capiscano anche i nostri politici.

L’arte contemporanea è cosa per pochi?

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Jenny Holzer, San Diego, 2007

Un’opera d’arte è sempre lo specchio di un determinato periodo storico.

Ognuno di noi vivendo in una città mette in relazione il proprio corpo con l’ambiente in cui vive. Camminando percepiamo varie sensazioni: caldo, freddo, ruvido, ripido, vuoto; tutte informazioni che arrivano poi al cervello. E così la piazza che attraverso ogni mattina, o il muro lungo il quale cammino, si imprimono nella mia mente e si trasformano in linguaggio.

Accade proprio questo anche ogni volta che lo spazio urbano accoglie una nuova opera d’arte: è un’occasione di arricchimento che regala una ulteriore chiave di lettura della città. L’opera potrà certo provocare anche disorientamento o reazioni contrastanti, ma sicuramente facilita il rafforzamento del senso di appartenenza a una collettività. In questo senso, l’opera d’arte contemporanea non non ha mai una mera funzione decorativa.

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Christo, Wrapped Reichstag,1995

Eppure da un po’ di tempo stiamo assistendo ad una nuova ingiustizia, forse poco grave, direte voi se comparata alle molte in atto, pero’ più’ subdola perché passa inosservata: quando si investe in arte si urla allo scandalo e allo spreco. Le critiche sembrano quasi affermare che l’arte non è cosa per tutti ma solo  per una piccola elite che ha tempo da perdere e denaro da spendere.

Niente di più ingiusto per tutti. Le opere d’arte contemporanee pensate per le nostre città sono un investimento per il futuro, verranno assorbite dalle nostre menti e ci trasformeranno come ogni cosa con cui entriamo in contatto. Più le nostre città saranno luoghi per incontri con le forme e con il pensiero creativo e più le nostri menti e i nostri corpi vivranno una qualità di vita migliore.

Senza titolo

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Un giallo ambientato nel mondo dell’arte contemporanea. La storia è raccontata da Frank Croce, un gallerista di successo che vive a Parigi. C’è l’atmosfera degli eventi legati all’arte, nel romanzo, inclusa quella della Biennale di Venezia nei giorni del vernissage degli artisti, con i suoi fiumi di alcool e con i collezionisti che vogliono imporsi con la propria forza economica e col desiderio di possesso. Il mondo che viene descritto è talvolta folle e delirante; a tratti sembra di rivivere atmosfere tratte dal film La grande bellezza, dove tutto si svolge in un continuo frastuono di feste e sballo. Qui, però, non siamo dentro una città italiana, ma in uno scenario internazionale con descrizioni di luoghi e situazioni, come alcune pennellate su New York, che sono piuttosto belle.

Dal momento che è un giallo, non mancano il morto e il mistero. E così, suo malgrado, il gallerista è costretto a interpretare il ruolo di investigatore; anche se è incapace di dimenticare il proprio amore per l’arte, incantandosi dinanzi alle opere di tutti i secoli e apprezzandole profondamente attraverso ogni suo senso, compreso l’olfatto: “l’olio di lino è tra tutti gli odori che mi risulta il più evocativo, così direttamente legato all’arte (…) Un profumo acre che mi proietta immediatamente nella purezza del gesto dell’artista”.

Il libro è curioso. Vi troviamo colpi di scena e soluzioni narrative intelligenti. A nostro vedere, si muove bene nell’ambito dell’arte contemporanea, dove spesso i limiti tra la realtà e finzione finiscono per confondersi.

Tommaso G.M.Nicolao, Senza titolo, Robin Edizioni

L’arte va in scena

Achille-Bonito-OlivaA partire da Domenica 16 febbraio su RAI 3 è apparsa una trasmissione che sarà in programma per dodici domeniche consecutive. Il titolo è Fuori quadro e si tratta del nuovo programma ideato e condotto dal critico d’arte Achille Bonito Oliva, incentrato sull’arte contemporanea. Forse ricorderete a questo proposito il contenitore settimanale televisivo di Philippe Daverio, Passepartout, in cui il critico, prendendo spunto dal patrimonio culturale, dalle mostre in corso, dalla storia o dalla cronaca operava collegamenti verso l’arte di tutte le epoche e di tutte le forme. Allora Daverio in Tv era un vero e proprio affabulatore. Il suo linguaggio e le sue parole catturavano anche il telespettatore profano conducendolo per mano nel mondo dell’arte. Forse una tecnica non gradita da coloro che di arte se ne intendono veramente, ma decisamente divulgativa e utile. Dopo nove stagioni l’esperimento di Daverio per portare la cultura in TV fu abbandonato dalla rete perché giudicato troppo costoso e Daverio si è rivolto al Web, che giudica un utile mezzo per l’educazione al bello e all’arte.

Questo mese è partito l’esperimento di Achille Bonito Oliva (ABO), creatore egli stesso del movimento della Transavangiardia alla fne degli anni settanta, che intende affrontare il tema arte contemporanea  contaminando, come è giusto che sia, diversi linguaggi. Sarà un programma di “formazione” e non di “informazione” il cui fine sarà, come lo stesso Bonito Oliva afferma, di pensare al “museo come una Spa, un luogo di benessere dove farsi massaggiare il muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva”.

Fuori quadro è una trasmissione di educazione al gusto del contemporaneo attraverso una trama che non vuole essere pedante, ma piuttosto penetrante. La speranza è quella di poter guidare lo spettatore nelle molteplici direzioni dell’arte contemporanea che non è un labirinto, ma una strada con molti sentieri luminosi” ha detto ABO alla conferenza stampa di presentazione del programma.

Sebbene Bonito Oliva sia stato accusato di non saper catalizzare abbastanza l’attenzione del pubblico meno colto – si tratta pur sempre di divulgazione in fondo – (“il contenuto è alto, ma fatta eccezione per alcune soluzioni formali di regia e montaggio non pare esserci un grande sforzo di fare i conti con le caratteristiche ben più popolari del medium”, Aldo Grasso, Corriere della sera, 25 febbraio 2014), tuttavia il programma è godibilissimo e l’oscillare fra l’interdisciplinarietà, la transnazionalità, e la multimedialità ci fa trascorrere trenta minuti veramente immersi nel mondo dell’arte, e ci fa comprendere come, secondo una citazione di Baudelaire cara al critico presentatore: “l’arte è la domenica della vita”.

Passioni private: l’amore per l’arte contemporanea

Giulio Paolini
Giulio Paolini

L’arte contemporanea può divenire il filo conduttore dell’esistenza di molti appassionati. Questo afferma Anna Martin –Fugier nel suo libro  Collectionneurs, che cerca di ricostruire l’universo interiore dei collezionisti d’arte contemporanea, attraverso la vita di quattordici collezionisti francesi. La selezione,  afferma nella  prefazione, è rivolta non all’ultima generazione di collezionisti, nati sull’onda della moda dell’arte e dell’interesse economico, ma è incentrata quella generazione operativa attorno agli anni Settanta del secolo scorso, quando comprare arte contemporanea era ancora cosa di pochi, un’avventura tutta in salita e tutta da conquistare, senza l’aiuto di specialisti e simili.

Questo persone consideravano collezionare non un mero diletto o un semplice svago, ma  un’attività che richiede curiosità, lavoro e costanza. Non si perdevano una mostra o una lettura, si informavano, incontravano i galleristi e gli artisti; facevano tutto ciò che era necessario per forgiare il proprio gusto.  Una generazione di collezionisti che si caratterizza anche per essersi impegnata sia nel mondo dell’arte privata che in quella pubblica: chi attraverso le fondazioni, chi con la costituzione di premi per giovani artisti, chi con incarichi in istituzioni pubbliche per promuovere l’arte contemporanea.  Molti di quelli che troverete nel libro non erano particolarmente ricchi e molto spesso pagavano le loro opere a rate; i soldi, per loro, erano un mezzo importante ma mai il fine, non pensavano all’arte come speculazione.  Ogni collezionista era diverso, molti preferivano al termine collezionista quello di amatore d’arte. Tanti erano anche ben consapevoli di imporre le proprie manie le proprie follie ai figli, ma allo stesso tempo il desiderio di acquistare le opere d’arte era divenuto il motore della loro esistenza e quel motore travolgeva tutto e tutti.

Nel libro potrete trovare le ragioni dei collezionisti, cosa li spingeva a scegliere un’opera, se erano degli accumulatori orgiastici o dei selezionatori, qual era il rapporto con gli artisti e i galleristi o anche con altri collezionisti.

Alla fine se ne può trarre una specie di costante del collezionista: è una persona che insegue un desiderio; la pulsione di acquistare, dice Martin Fugier, è simile a un impulso sensuale, erotico: una vota acceso non si spenge più.

Anne Martin-Fugier, Collectionneurs, ActeSud, 2012

Visto e mangiato

Ynka Shonibare, 2013
Ynka Shonibare, 2013

Gustavo Zagrebelsky  ha anticipato ieri su Repubblica la sua riflessione preparata per la terza Biennale Democrazia che si tiene in questi giorni a Torino. Nell’articolo ha affontato il tema della riflessione legato alla felicità. Non ci sono beni che conducono alla felicità e che vanno bene per tutti. La felicità è legata alla natura degli esseri umani. La persona sensuale ad esempio è colei che trova il bene attraverso i sensi e tra i sensi l’articolo elencava anche il gusto. L’articolo era assai più ampio e l’obiettivo alla fine era quello di rimarcare come le idee producono la felicità. (Gustavo Sagrebelski, Il mondo delle idee, La Repubblica, 10 aprile)

Noi invece torniamo al gusto e di conseguenza al cibo e al vino.  Quante cose oggi girano attorno al cibo, mai è stato così tanto rappresentato e pubblicizzato.  Impossibile evitarlo alla televisione o alla radio, sui giornali o nelle immagini per la strada, i volti degli chef sono più famosi  di quelli degli attori e in ogni città  si moltiplicano i luoghi più inimmaginabili dove si possono fare esperienze culinarie di tutti i tipi (ricordo il ristorante  Zurigo dove si può mangiare al buio).

Claes Oldenburg,
Claes Oldenburg,

Il cibo e il vino sono da sempre stati temi privilegiati nell’arte del passato e ancora nell’arte contemporanea (si è da poco conclusa una mostra interessante a Ginevra dal titolo Food a cura di Adelina von Furstenberg presso il Museo Ariana dove si poteva vedere l’opera di molti artisti internazionali legati all’idea dell’alimentazione).

Liliana Moro, Dumme Gans, 2002, struttura in legno biscotto e caramelle esposta alla mostra Food, Ginevra
Liliana Moro, Dumme Gans, 2002, struttura in legno, biscotto e caramelle esposta alla mostra Food, Ginevra,2013

Il cibo infatti non rimane sempre lo stesso, cambia con i costumi della società e mentre da Sinagapore stiamo imparando a coltivare gli orti in verticale gli  Skygreen, grattaceli verdi dove vedremo crescere  l’insalata, c’è chi, come l’ambientalista indiana Vandana Shiva, parte dal cibo per portare avanti la sua lotta contro i mali della globalizzazione, svelando “il business del cibo cattivo” che crea sempre più una popolazione malata malnutrita e obesa.

Skygreen, Singapore
Skygreen, Singapore

Tornando a Zagrebelsky e alla felicità io mi riconosco tra coloro che provano nel cibo un bel divertimento, però sono anche  assolutamente d’accordo con Peppe Severgnini quando scrive che si sente braccato e annoiato da un branco di “enogastromaniaci” (persone soprattutto della nostra età) che trasformano  ciò che è piacevole e divertente  in un ossessione! (da Beppe Severgnini, Italiani di domani, Rizzoli).

L’idea, macchina che crea l’arte

Continuiamo il nostro viaggio ideale durante queste feste di Natale. Dopo Roma e la Galleria Borghese, propongo  di scendere a Napoli dove, dal 15 dicembre, si è aperta una mostra dal titolo “Sol Lewitt e i suoi artisti”. Sua è la frase che dà il titolo a questo articolo.

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Sol Lewitt potrebbe risultare, a chi non è avvezzo all’arte contemporanea, un’artista tosto da comprendere e da assimilare, almeno al primo incontro. Anche se cosi’ è, io vi proporrei comunque di non scoraggiarvi, perché questo personaggio americano, teorico dell’arte minimale e concettuale fin dagli anni Sessanta, è un caposaldo dell’arte contemporanea.  Egli si dedicava a pensare e riflettere su tutte le possibilità di espressione offerte dalle della forme geometrihe primarie.  Se andate a vedere il suo lavoro non cercate il racconto; lui non ha mai  da raccontarvi un fatto o da lasciare  traccia del suo punto di vista:  ha studiato tutta la vita per offrirci tutte le possibilità combinatorie delle  forme geometriche, come ad esempio il cubo. Sol Lewitt ci lascia le norme, le combinazioni delle forme, come quando si dedica a quantificare e rappresentare tutte le possibilità di rappresentare due linee che si incontrano.

Non cercate il sentimento facile quando andate a vederlo, ma la struttura fondante dei segni che accompagnano la nostra vita. La sua opera fondata su rigorosi calcoli matematici  è in ultimo  la trasposizione delle sue pratiche di logica. Il pensiero di Sol Lewitt è il pensiero di un teorico di un filosofo che ha la forza di rifondare i principi dell’arte.

Sol Lewitt
Sol Lewitt

Allora vedrete linee spezzate, in bianco e nero e a colori, cubi, forme geometriche seriali in progressione. Non disperate e cercate la logica matematica di questi progetti. E se vi domanderete come hanno fatto a trasportare le opere sulle pareti del museo ricordatevi che l’artista non ha mai dipinto direttamente tutto il suo lavoro.  Lui esprime il suo progetto, descritto minuziosamente, per poi lasciare  ai suoi assistenti il compito di eseguire l’opera. A loro dovevano essere sufficienti le sue direttive . Ciò che conta nel suo lavoro è il concetto, l’idea, non la realizzazione.

E ciò che mi piace di più è che l’idea è di tutti e rimane nell’aria per sempre.

La mostra resterà aperta fino al 1 aprile ed espone anche la sua collezione di opere di altri artisti.

Oro e luce in attesa del Natale

Beato Angelico, Annunciazione, 1433-34, Museo Diocesano di Cortona
Beato Angelico, Annunciazione, 1433-34, Museo Diocesano di Cortona

Continuiamo ad immaginarci di avere tempo e denaro in questi giorni di Natale. Cosi’ andiamo a Lens e dopo aver visitato la nuova succursale del Louvre, da poco inaugurata nella cittadina francese, potremmo partire alla volta di Roma per vedere, nella Galleria Borghese, l’Annunciazione del Beato Angelico. L’opera arrivata dal Museo Diocesano di Cortona sarà visibile fino al 10 febbraio.

L’occasione della mostra è l’iniziativa L’arte della fede, ossia cinque incontri (questo è il primo) con altrettanti capolavori della storia sacra.

Sono passati molti anni da quando ero bambina e con mio padre ero solita andar per musei, ma non posso dimenticare l’effetto e la curiosità che suscitarono in me le piccole cellette del Convento di San Marco a Firenze, affrescate dal Beato Angelico qualche anno dopo aver completato l’Annunciazione di Cortona (1433-34).

Beato Angelico, monaco domenicano, ha dedicato tutta la vita a raccontare attraverso la pittura un atto astratto e poco rappresentabile fisicamente, ovvero il senso della fede e della spiritualità. Guardando l’opera che brilla di oro e lucentezza ci pare di cogliere nell’angelo e in Maria un’intimità e un accordo che fissa un patto di unione e pace per l’umanità.

Due, appunto, sono gli elementi preminenti nell’opera: l’oro che luccica e la luce che abbaglia. L’oro come astrazione dalla realtà , tipico nell’arte medievale, e la luce come diretta emanazione di Dio.

Provate ora a fare un salto e pensate all’arte contemporanea. Più precisamente a due artisti diversi,  ma con qualcosa in comune nella ricerca di una dimensione altra da quella terrena. Pensate al lavoro di Yves Klein, ai suoi monocromi come i Monogold degli anni Sessanta.

Yves Klein, Monogold
Yves Klein, Monogold

L’artista stesso ha scritto : “ho creato degli stati di pittura immateriale”. Ancora, spiegando le sue opere monorome e la scelta di usare un solo colore, ha scritto “ con il colore io provo un sentimento di assoluta identificazione con lo spazio , mi sento veramente libero”.

Un altro artista contemporaneo a cui penso guardando l’Angelico è stato Dan Flavin , l’artista minimalista americano che ha utilizzato, come materiale del suo lavoro, la luce al neon che un po’, come nel caso di Klein, diventa un monocromo. Una luce che pero’, nel suo accendersi, si espande nello spazio e avvolge lo spettatore.  Non è certo un caso se a Milano l’artista è stato invitato poco prima di morire per lasciare un opera fatta di luce nella Chiesa di Santa Maria Annunciata.

Dan Flavin, Chiesa Rossa, Milano, 1996
Dan Flavin, Chiesa Rossa, Milano, 1996

E’ come se Klein e Flavin avessero rinunciato di raccontarci il fatto dell’Annunciazione per trasportarci, uno con l’oro e l’altro con la luce, dove ci ha condotti l’Angelico con la sua magnifica opera.

E’ davvero poi così lontana l’arte contemporanea dal suo passato?