Sono praticamente cresciuta alle Biennali di Venezia. Sin da quando sono piccola, ogni due anni si programma quando e per quanti giorni si riesce a stare a Venezia.
Il prossimo sabato si inaugura la 57esima edizione dal titolo “Viva arte viva”.
Mi vengono in mente i bei momenti, quelli un po’ più faticosi, i passaparola, le discussioni. I ricordi si sovrappongono; mi sovvengo in particolare delle celebri pecore di Menashe Kadishman del 1978, dell’edizione del 1980 con le continue visite, assieme a mio padre, per vedere e rivedere l’opera di Magdalena Abakanowicz, nel padiglione polacco. Nel 1990 ho visto per la prima volta l’opera di Anish Kapoor e mi sono scandalizzata davanti alla scultura policroma di Jeff Koons abbracciato a Cicciolina.
Anish Kapoor, Void Field,1990
Non posso dimenticarmi l’immersione nel padiglione giapponese dentro l’opera di Yayoi Kusama del 1993, oppure l’orrore e l’odore acre delle ossa, lasciate dalla performance Balkan Baroque, di Marina Abramowic, del 1997.
Marina bramovic, Balkan Baroque,1997
Mi sono tanto divertita con le sedie tamburo di Chen Zhen, nel 1999 e mi sono lasciata condurre nello spazio dagli specchi e dai colori dell’installazione di Olafur Eliasson, nel padiglione danese, nel 2003. Sono stata incantata e commossa, come vedessi trascorrere la mia vita, dalle opere di William Kentridge, nel 2005.
Olafur Eliasson,2003
Alla Biennale poi ricordo le prese di posizione politiche da parte degli artisti, come quando nel 2003 Santiago Serra non mi fece entrare nel padiglione spagnolo perché non avevo il passaporto spagnolo. Oppure mi ricordo l’artista Khaled Corani, palestinese, che senza un padiglione per il suo stato aveva collocato nei giardini grandi passaporti palestinesi.
Bisogna andarci, a Venezia, e vedere cosa ci verrà proposto perché è vero l’arte è sempre viva e un po’ come ci aveva suggerito Carsten Höller nel 2015,presentandoci la sua opera ai Giardini, la biennale è come un giro di giostra e non si può mancare.
Frank Stella, Damascus Gate (stretch variation I), 1970
Solo immagini oggi, un piccolo assaggio per mostrare quella parte della fiera d’arte contemporanea di Basilea, che si rivela sempre la più interessante: Unlimited, il luogo in cui vengono raccolti i “grandi nomi”, che per i comuni mortali sono da “guardare” (con ammirazione e un tocco di invidia per chi può permetterseli) e “non toccare”.
Curata quest’anno da Gianni Jetzer, Unlimited è la piattaforma espositiva d’avanguardia per i progetti speciali che trascendono il limite classico dello stand. Vi trovano posto le grandi sculture, i dipinti di grande dimensione, le proiezioni video, le installazioni e le performances.
Ai Weiwei, White House, 2015Anish Kapoor, Dragon, 1992Chiharu Shiota, Accumulation: searching for destination, 2014-2016
Jonathan Monk, Site/Specific/Pallet/Rock, 2013-2014
Non era la prima volta che un opera d’arte da collocare in una città creava scompiglio e polemica, ma nel 2012, quando Anish Kapoor realizzo’ la torre Arcel Mittal Orbit, i detrattori dell’arte contemporanea si scatenarono: una torre altissima (115 metri), tutta in metallo (Arcelor Mittal è il più grande gruppo industriale dell’acciaio a livello mondiale), veniva eretta a Londra per celebrare i giochi olimpici. Kapoor aveva in effetti sfidato l’idea stessa di monumento prendendo spunto (quasi rendendogli omaggio) dal progetto di Torre -monumento alla terza internazionale, mai realizzato, opera di Vladimir Tatlin (1919-1920). L’opera era concepita per rimanere come simbolo e memoria dell’evento sportivo.
Adesso la torre cambia vita. L’artista belga Carsten Holler la userà per installare uno scivolo curvilineo che raggiungerà l’altezza di 178 metri (certo: il più alto del mondo!). La cosa sembra condotta in accordo con lo stesso Kapoor (lo ho letto sul Corriere della Sera del 27 aprile ultimo scorso). Lo scivolo sarà un grande tubo: prepariamoci a compiere folli discese. L’opera verrà inaugurata il 24 giugno prossimo.
The Slide, Carsten Holler
Offrendo un’ emozione così forte, la torre riuscirà adesso a diventare una volta per tutte il simbolo di Londra?
Panoramica del primo piano della Sucrière,in primo piano l’opera di Cèleste Boursier-Mougenot
Si è aperta il 10 settembre la 13esima Biennale di Lione. Quest’anno il suo curatore-Ralph Rugoff- l’ha intitolata: la vita moderna. Sono stata a visitarla e dopo aver visto le opere dei sessanta artisti invitati da trenta diversi paesi, sono arrivata alla conclusione che la vita moderna, così come intesa dal curatore, è oggi improntata principalmente a angoscia e attesa per un cataclisma in arrivo.
Jessica Diamond,Le vin avant La Roue,2015
Si comincia, infatti, con il grande manifesro che rappresenta il tema della Biennale: è una foto tratta da una scena del video di Yuan Goang-Ming che poi troverete in due luoghi della Biennale (alla Sucriére e al Musee des Confluences). Vi si vedono una spiaggia, tanti ombrelloni colorati, il mare invitante e poi sullo sfondo una grande centrale nucleare che incombe su tutto, enorme e minacciosa.
Nella Sucrerie, posta in un quartiere sul fiume in piena evoluzione architettonica e sempre molto stimolante da visitare, l’eposiyione è allestita in modo molto chiaro. Al primo occhio ci si rende conto che il curatore ha puntato su poche opere, esposte come se ci si trovasse in una galleria ( questo aspetto mi ha ricordato l’Arsenale della arttuale Biennale di Venezia). L’idea dell’incombente disastro torna però subito alla mente quando, improvvisamente , comincia a suonare una batteria di tamburi posta al centro della sal e priva di musicista . Il suono-si capisce dopo- è prodotto da noccioli di ciliegia che cadono dal soffitto sui tamburi e sui piatti: siamo noi, con i nostri cellullari, le cui vibrazioni eletromagnatiche che vengono captate da un dispositivo , a causarne la caduta. L’opera di Celeste Boursier-Mougenot, è molto coinvolgente e cattura l’attenzione di ogni visitatore.
Angoscia per qualcosa che è già accaduto invece me l’ha procurato il lavoro di Nguzen Trinh Thi, l’artista vietnamita che ha presentato una serie di fotografie e filmati in cui si vedono delle persone, ritratte da sole e intente a indicare, col braccio teso e l’indice allungato, un luogo. Un lavoro sulla memoria, il cui senso è percepibile dal titolo “Landascape as the silent witness of history”. Non sappiamo cosa indicano quelle persone , ma il solo indice alzato ci fa pensare al ricordo di qualcosa di tragico, di inaspettato, di terribile.
Nguzen Trinh Thi, Landscape series,2013
Di sospensione e di attesa mi è sembrato parlasse anche la curiosa installayione video dell’ artista cinese He Xiangyu, esposta nella seconda sede della mostra , al MAC . Qui si entra in un labirinto di video dove su ogni schermo si vede una persona che si sta addormantando o che dorme già. Uomini e donne ripresi tra la veglia e il sonno.
In bilico su un cornicione, a guardare qualcosa di distrutto, risultato di un evento già avvenuto , invece mi ha collocata l’artista taiwanese Lai Chih-Sheng. Immaginatevi una stanza con a terra dei resti di imballaggi e un cornicione stretto ma percorribile posto in alto , a contornare tutta la stanza. L’artista ti invita a salire e a percorrerlo rimanendo ben vicina al muro, in modo da non cadere giù. In realtà i resti da vedere in basso sono gli avanzi degli imballaggi delle pere della biennale. Guardandoli, ti viene spontanea la domanda: cosa resta al visitatore della mostra, una volta che essa è finita?
Lai Chih-Sheng, Border _Lyon, 2015
Di opere ce ne sono state tante altre e molto interessanti. Comunque , l’ide aid modernità proposta da questa biennale è delineata dal senso di angoscia per un futuro incerto e dall’incoscienza di chi vive inconsapevolmente su un pianeta alla deriva.
Di modernità in senso positivo come immaginayione creatrice e ottimistica, senso di meraviglia e stupore per il Creato , non sarei riuscita a trovare traccia se non fosse che, rimastomi un po’ di tempo , per fortuna mi sono recata a visitare una seyione staccara della biennale stessa, collocata fuori Lione, presso il convento de la Tourette. Qui l’artista Anish Kapoor si è voluto confrontare con l’utlimo capolavoro dell’architettura di Le Courbusier.
Le Couvent de la Tourette, opera di Le Corbusier
Ed è in quella creazione architettonica della fine degli anni Cinquanta, in quei volumi, in quei tagli di luce e in quella concezione dello spazio, che hi ritrovato il senso vero e ottimistico della modernità.
La nostra immagine, come italiani deriva dal nostro stile di vita. Cinema e moda l’hanno portata nel mondo, tirandosi dietro anche altri settori come l’alimentazione, il mobile e così via.
Uno stile di vita complesso che si riassume in una parola: buongusto. Si applica a come mangiamo, a come ci vestiamo, a come arrediamo ma anche a come ci approcciamo alla vita. Si suppone che noi italiani sappiamo farlo con leggerezza e appunto “buongusto”.
Ora, il problema è che oggi rappresentare questo stile nel mondo è divenuto difficile. Da un lato internet rende impossibile farlo senza essere banali: le cose di base sull’Italia sono disponibili ovunque. Dall’altro lo scenario è cambiato: elementi di quello stile che ci ha resi unici e famosi ci sono ancora, ma anche altri ce li hanno. Faccio un esempio: il nostro vino è ormai in competizione con quello di mezzo mondo e hai voglia a dire che da noi è una tradizione: sai cosa gliene importa a chi compra il vino a Rio de Janeiro? Questo si applica a tutti i nostri tradizionali punti di forza. La moda tiene, si dice: beh, insomma. Campa in mani straniere e dove è ancora italiana si dibatte nella discussione sull’opportunità di riportare tutte le produzioni in Italia. Il mobile va: certo, e il salone del mobile è ancora un grande evento, ma ormai l’unico nel suo genere, e purtroppo è anche cronicamente scollegato dal sistema moda, con cui dovrebbe interagire. Abbiamo slow food: super vero. Ma anche tante porcherie che avvelenano il nostro cibo; chi le mangia più le mozzarelle prodotte accanto alla terra dei fuochi? E tutto il mondo sa della terra dei fuochi: a me ne hanno parlato amiche americane!
La domanda allora è: ma c’è un modo di ricostruire uno stile italiano per usarlo in modo da ri – affermarci nel mondo? Gli americani chiamano soft power l’attrattività culturale di un paese. Un potere basato sulla seduzione e non sulla potenza militare o economica.
Con lo stile italiano noi il soft power ce lo avevamo. Ma adesso come lo ricostruiamo? Come ricreiamo un soft power per ricavarci un nuovo posto nel mondo di domani?
La vita o è stile o è errore, si diceva un tempo. Speriamo lo capiscano anche i nostri politici.
Nella mia famiglia il blu o per meglio dire l’azzurro è sempre stato il colore prediletto. Non a causa di appartenenze politiche, né per particolari ardori calcistici; ma un’inclinazione per Modugno da parte di mia madre e la scelta da parte di mio padre di dipingere di azzurro i muri esterni del suo magazzino di stoffe; scelta compiuta affermando di averlo fatto per portare un po’ di mare nella cittadina toscana dove risedevamo. L’azzurro poi divenne anche il colore scelto per la croce al cimitero di mia nonna.
Wassily Kandinsky, Composizione IV, 1911
Ma l’azzurro è stato da sempre un colore di riferimento anche per chi ama l’arte e le cose dello spirito. Con riferimento al secolo appena trascorso, pensiamo a Wassily Kandinsky, che nel 1911 fondò con l’amico Franz Marc il gruppo artistico chiamato Blaue Reiter (cavaliere azzurro). “La vocazione del blu alla profondità è così forte (…) Più il blu è profondo e più richiama l’idea dell’infinito, suscitando la nostalgia della purezza e del soprannaturale” (Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, ed.Bompiani,1995,p. 63)
La relazione tra forma e colore che teorizzava Kandinsky verrà successivamente approfondita da un artista come Yves Klein, il quale alla fine degli anni Cinquanta tracciò un legame con l’infinito tratta la sfera del sovrumano, attraverso l’uso di quel pigmento azzurro che poi prenderà nome da lui.
Sempre valutando l’impatto del colore e della forma, le sculture-installazioni di Anish Kapoor ci immergono in uno spazio dilatato, quasi a farci naufragare nel nulla.
Anish Kapoor, Void, 1989
Ma l’azzurro rimane il colore che guarda al cielo e alle cose non materiali. Il riferimento più immediato va ancora più indietro nel tempo. L’azzurro è il colore del manto della Madonna di Giovani Bellini oppure dei cieli di Giotto.
Questo colore dunque è prezioso e in passato ha dato non pochi grattacapi a chi voleva produrlo. In natura proviene da due pigmenti, l’azzurite e i lapis-lazuli ,entrambi rari e per questo più ricercati. Per trasformarli in colore occorreva frantumarli con pazienza e prima dovevano essere lavati accuratamente. Nel medio evo erano i veneziani che portavano i lapis-lazuli in occidente, dove i pittori ne facevano uso.
Giovanni Bellini,
Se anche voi avete un colore che vi segue nella vita e ne volete sapere di più, vi suggerisco un libro davvero interessante : è scritto da Anne Varichon, si intitola Couleurs, pubblicato da Seuil, a Parigi, nel 2005. Qui potrete trovare una panoramica dei colori con la storia della loro origine, dei pigmenti e dell’influenza culturale che hanno avuto nel corso dei secoli.
Anche Anish Kapoor si è messo in gioco… è sceso infatti in campo per ribadire la necessità che l’espressione artistica rimanga libera da ogni tipo di legame sia esso politico, sociale o economico. Sulla scia del filmato postato su You tube da Ai Weiwei, che ha fatto infuriare le autorità cinesi, Anish Kapoor insieme ad un nutritissimo gruppo di esponenti dell’arte e della cultura mondiale si è esibito nella stessa danza sfoggiando anch’egli una giacca rosa confetto e e occhiali da sole scuri.
Hanno aderito all’iniziativa MoMA, Guggenheim, New Museum, Brooklyn Museum e il Whitney Museum of American Art di New York; l’ Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington; il Philadelphia Museum of Art; il Museum of Contemporary Art di San Diego; personalità quali Helen Bamber; Hanif Kurieshi, artisti come Mark Wallinger, Bob e Roberta Smith e Tom Phillips, ballerini del calibro di Tamara Rojo e Deborah Bull.
Anish Kapoor ha ricevuto il plauso di altri grandi dell’arte, prima fra tutti Marina Abramovich, la quale non estranea al gusto della provocazione, ha sostenuto la performance di Kapoor.
L’ambientazione e il balletto sono molto semplici ma ricchi di simboli e metafore a partire dalla immancabile presenza delle manette (già usate da Ai Weiwei), dalle maschere che riproducono l’artista cinese, dalle scritte sul muro alle spalle dei ballerini che riportano il nome di molti artisti che negli anni hanno subito ingiustizie ed intimidazioni (fra gli altri compare anche il nostro Saviano e le Pussy Riot) fino al gesto di contestazione tipico dei piccoli che manifestano il dissenso: battere i pugni sul muro.
Nel bel mezzo del filmato compare chiara la scritta: “End Repression, Allow Expression” che diventa la frase simbolo riassuntiva di tutta l’operazione. Che dire? Noi stiamo con lui!
Per chi fosse un italiano in transito a Parigi oppure per chi in questo periodo ha in programma un viaggio nella capitale francese, vorrei suggerire una visita al Grand Palais dove, nella cornice di Monumenta, potrà visitare la grande installazione di Daniel Buren.
Monumenta infatti è un avvenimento artistico molto atteso a Parigi, che si tiene ogni anno al Grand Palais e consiste nell’invitare ogni volta un’artista di fama internazionale a produrre per quello spazio una monumentale installazione temporanea. In passato sono stati ospitati gli artisti Anselm Kiefer, Richard Serra, Anish Kapoor e Christin Boltansky .
Come sempre le opere dell’artista francese Daniel Buren si presentano sotto la forma di installazione e non nascono nello studio ma sono la realizzazione di un’idea nata in situ. Il suo lavoro, infatti, è sempre in relazione allo spazio. Anche in questo caso sembrerebbe voler mettere in risalto la complessità architettonica del posto. Lo spazio viene riletto anche dall’uso del colore che per Buren ha un rulo molto importante, lui stesso definisce il colore “ L’ elemento visuale che appartiene alle arti plastiche. E’ connesso all’arte come il suono è connesso alla musica. E’ un pensiero puro che non può essere tradotto” .
Ogni volta il visitatore vive davanti alle opere di Buren un susseguirsi di situazioni visuali in cui viene coinvolto in prima persona e diventa parte attiva dell’opera: è infatti il suo muoversi e immergersi dentro l’opera che permette di ricomporre i quadri e le forme geometriche dell’ambiente.
Nello spazio al Grand Palais Buren ha dato un grande risalto alla luce filtrata dal soffitto e ha giocato con la forma geometrica del cerchio, facendolo divenire il tema dominante che evidenzia il cerchio della cupole, dei balconi e delle nicchie interiori.
Assolutamente da non perdere : Daniel Buren “Monumenta 2012” (Parigi, Grand Palais 10 maggio-21 giugno)
Cosa risponderebbe il primo cittadino della vostra città se ricevesse in dono da un altro paese una scultura composta di una colonna in metallo alta 8 metri ?
La mia città, credo, troverebbe un modo per collocarla. A Ginevra, invece, una situazione del genere ha creato qualche imbarazzo. Ciò è accaduto a causa del dono, fatto alla città dallo stato del Marocco, di una scultura in forma di colonna che rappresenta una serie di acrobati stilizzati, opera dello scultore marocchino Karim Alaoui. La scultura rende omaggio a cinquanta anni di relazioni diplomatiche con la Svizzera. Gli amministratori ginevrini si sono detti molto contenti del dono, ma hanno anche fatto sapere che, per ora, non sono in grado di stabilire se e dove verrà collocata.
Staremo a vedere come andrà a finire, non è la prima volta che la città riceve dei doni di questo tipo: nel 2007 l’India ha regalato una grande statua con la figura di Gandhi; l’opera è stata collocata nel parco dell’Ariana e non è difficile trovare persone che la visitano e si fanno fotografare vicino ad essa.
Questa notizia che ho letto sul periodico Gh.ch del 18 aprile scorso mi ha riportato al tema dell’arte pubblica, cioè quell’arte inserita in contesti urbani. Anche io, a dire il vero, temo i doni e preferisco quando le opere nascono a seguito di un invito fatto ad un artista dalla città: questo perché l’arte non è mera decorazione urbana.
Perché un’opera possa veramente entrare a fare parte della città deve vivere in relazione con l’ambiente scelto . “La cosa più importante diventa il valore del contesto, dell’ambiente – scrive l’artista russo Ilya Kabakov – della situazione già presente nel luogo dove si realizzerà il progetto culturale” (Quaderni del Corso Superiore di Arti visive, Public Projects or the Spirit of a Place, Charta 2001). Queste parole secondo me danno ragione all’arte, che ricopre sempre un ruolo importante nelle nostre città.
Basti pensare alla grande opera specchiante Claud Gate, realizzata nel 2004 da Anish Kapoor a Chicago e diventata quasi un simbolo della città. Anche la piccola Calenzano, in provincia di Firenze, accoglie gli automobilisti che lasciano l’autostrada con una bellissima opera realizzata da Dani Karavan. A Berlino, per tornare a una grande città, l’aggressiva installazione di Richard Serrra, Berlin Curves (1986) è volutamente ingombrante al punto da consentire ai cittadini un incontro continuo con essa, collegato a una forte esperienza sensoriale.
Infine, ma non perché la lista sia conclusa, vi parlo dell’opera lasciata nella mia città d’origine, Pistoia, dall’artista Gianni Ruffi, che ha progettato un lavoro per l’angolo di una piazza antica e piena di significato storico e culturale. L’opera è una grande luna di acciaio Corten che scompare dentro un pozzo: è un lavoro poetico che rende concreto un sogno, e ogni volta che lo vedo mi sembra che mi guardi in modo ironico e che mi attiri come un miraggio.